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Sulla sostenibilità essere all’altezza della sfida
Sulla sostenibilità essere all’altezza della sfida
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Essere all’altezza della responsabilità. Perché oggi la sostenibilità è una sfida irrinunciabile. Il punto di  Giovanni Lo Storto, direttore generale Luiss, per il primo numero di SustainEconomy.24, il report Luiss Business School e Il Sole 24 Ore – Radiocor

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“Non è dalla generosità del macellaio, del birraio e del fornaio che possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi.” Su questa celeberrima frase contenuta ne La ricchezza delle nazioni di Adam Smith (1776), e sull’intera filosofia di cui essa è una formidabile sintesi, sono state costruite intere scuole di pensiero. Fin da allora, con alterne vicende, la battaglia delle idee attorno a tematiche fondamentali come la libertà e i diritti di ciascun essere umano (e che ha visto schierati, oltre al grande filosofo scozzese, combattenti d’eccezione come Karl Marx, Max Weber, John Maynard Keynes o Friederich von Hayek) ha visto spesso prevalere in Occidente le fila di quanti ritenevano che non l’umana bontà, bensì gli interessi individuali, per tramite di un mercato più o meno libero, fossero alla base del benessere collettivo. Voler fare soldi, insomma, faceva bene alla democrazia: su questo assunto, all’apparenza così stridente, sono stati costruiti interi sistemi economici e politici: nel 1987, in piena era reaganomics, Oliver Stone faceva dire a uno dei suoi più celebri “cattivi”, il Gordon Gekko di Wall Street, che l’avidità era la vera forza propulsiva del genere umano, in quanto essa sola catturava a pieno lo spirito evolutivo della nostra specie.

Negli ultimi decenni, tuttavia, questo modo di pensare – certo estremizzato dal villain interpretato da Michael Douglas, ma nei suoi tratti essenziali spesso diffuso e dominante nelle nostre società – sembra aver perso credibilità. Il capitalismo, inteso nel suo senso un po’ vago dello “stato di cose” prevalente in ambito socio-economico di cui parlava Marx, è facilmente passato dall’essere considerato il propellente di società in piena esplosione al ricoprire piuttosto il ruolo di grande imputato del nostro tempo. Fin dai tardi anni Sessanta, a dire il vero, pionieri come Aurelio Peccei e il suo Club di Roma avevano osservato criticamente come la crescita indefinita non potesse essere l’obiettivo sine die delle nostre economie, che pure si muovevano in un insieme finito – quello del nostro pianeta e delle risorse a nostra disposizione. Nel corso dei decenni, movimenti intellettuali come quello che si opponeva alla globalizzazione e quello che, invece, promuoveva il bisogno di “decrescere”, hanno contribuito ad affermare e rendere popolari voci molto critiche del pensiero fino a quel punto dominante. Ma è stato soprattutto un altro interlocutore a rendere evidente il bisogno di pensare nuove strategie: il nostro pianeta, l’unico che abbiamo, sul quale, oggi, il cambiamento climatico ha trasformato il bel tempo – gli inverni miti, le precoci e lunghe primavera – in una cattiva notizia.

Osservatori come Jeffrey Sachs, forse il più autorevole esperto mondiale di sviluppo sostenibile (il suo prossimo libro, Terra, popoli, macchine. Settantamila anni di globalizzazione uscirà in autunno per Sustain, il nuovo marchio editoriale che la Luiss dedicherà proprio ai tanti temi legati alla sostenibilità), hanno calcolato in trent’anni il tempo a nostra disposizione per invertire la rotta. Il colpo durissimo e inatteso del Covid-19 non ha forse segnato, come profetizzato da alcuni osservatori, la fine del capitalismo, ma ha certo mostrato che, proprio come scrive Sachs, non esistono eventi umani che non siano interrelati tra loro, né fenomeni che possiamo considerare con certezza a noi estranei solo in quanto riguardanti paesi o persone lontani. Le soluzioni a problemi globali richiedono a loro volta un punto di vista che sia differente dal passato: non quello di un mondo segnato dalle disuguaglianze e abituato a distinguere tra vincitori e perdenti dei processi globali, ma uno inclusivo dei più deboli e ben attento alla salvaguardia dell’ambiente – dell’unico ambiente a nostra disposizione – nel quale operiamo. Un nuovo paradigma della responsabilità è urgente e necessario, e l’era digitale, con i mezzi fino a poco fa inimmaginabili delle nuove tecnologie, ci consente di metterlo in atto: rivelarsi all’altezza della sfida è l’unica chance che abbiamo.

 

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9/7/2020