People Management
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19 Aprile 2024

Come sarà l’ufficio del futuro

Gli studenti Luiss Business School in collaborazione con Luxy hanno costruito una riflessione attorno all’evoluzione degli spazi di lavoro. Design, innovazione e people engagement ridefiniranno uffici e spazi abitativi Dalle pareti in vetro al fianco degli apparati produttivi a spazi fluidi, in cui dare spazio a ogni tipo di personalità, creatività, modalità di collaborazione ed esigenza di benessere. Dal 15 al 17 aprile, presso il Milano Luiss Hub, Luiss Business School in collaborazione con Luxy ha ospitato tre momenti di riflessione sull’ufficio del futuro. Le tre giornate sono state inaugurate dalle relazioni di tre gruppi di studenti Luiss Business School provenienti dai master Gestione delle Risorse Umane e Organizzazione - Master in Gestione delle Risorse Umane e dei Progetti; Corporate Event: Management, PR and Communication - Master in Marketing Management; Digital Marketing - Master in Marketing Management. Gli studenti, presentati dal professor Felice Valente, Direttore Master GRUO Luiss Business School, hanno proposto una fotografia dell’evoluzione del mondo del lavoro e dei suoi luoghi, partendo dai paradigmi del passato per costruire le caratteristiche dell’ufficio del futuro. Il ruolo del design Il design supporta l’uomo da sempre, sia nei cambiamenti voluti che in quelli non voluti come il Covid. La pandemia ha cambiato i modi di vivere, ma anche di progettare, trasformando la casa in una micro-polis, in cui l’intersezione tra vita pubblica e privata ha offerto lo spazio creativo in cui il design ha potuto offrire soluzioni. Terminato il lockdown e l’esigenza di distanziamento, il ritorno in uffici obsoleti, poco attenti alle nuove esigenze umane, ha spinto a ripensare gli uffici, aggiungendo naturalità. Il concetto di Co-Existing Nature ha introdotto l’elemento vegetale al fianco di spazi per lo yoga, il power nap e terreni per orti in terrazza. L’esperienza è il punto di partenza per immaginare strategie che appaghino i bisogni degli utenti, integrando anche la sostenibilità negli ambienti. L’approccio human centric mira a trasformare l’ambiente di lavoro in luoghi inclusivi, in cui l’introversione che necessita di spazi adatti alla concentrazione si accosti a una sala riunioni con pareti in vetro. Al momento c’è poca consapevolezza sulle variabili che influenzano la produttività. I brand di design dovranno lavorare su prodotti che portino il lavoratore a comprendere come poter aumentare il proprio rendimento. I bisogni di chi vive l’ufficio saranno al centro anche in un ipotetico mondo del lavoro spostato anche nel metaverso, in cui vivere le trasformazioni rese possibili dal self-design. Il contributo della tecnologia Senza la tecnologia le aziende non sarebbero state capaci di improntare l'embrione di smart working sperimentato durante la pandemia. Ma questo fattore può influenzare fortemente il mondo delle organizzazioni. Il rapporto tra le persone e gli spazi può cambiare proprio grazie al digitale, rispondendo a bisogni conosciuti ed emergenti di chi lavora in ufficio. L’innovazione è quel processo che porta alla creazione, all'introduzione di prodotti, servizi e nuovi processi che vogliono introdurre un cambiamento positivo nella società. Obiettivo: realizzare il benessere delle persone. Oggi l’innovazione si muove nel segno dell’intelligenza artificiale, che permette l’automazione di compiti ripetitivi, l’ottimizzazione delle risorse, l’assistenza decisionale, la sicurezza e il monitoraggio di ambienti e salute umana. Basti pensare a tutti i sistemi IoT, la domotica, i device come l’Apple Watch e il FitBit. Pensando all’arredamento del futuro, si parla di materiali intelligenti, monitoraggio della salute, ma anche impatto sociale e nuovi modelli di business volti a favorire l’economia circolare. Ma come la tecnologia cambierà gli spazi del futuro? Potrebbe farlo attraverso robot modulari che riconfigurano lo spazio in base alle necessità; ologrammi interattivi che sostituiscono quadri e decorazione per permettere un'esperienza personalizzabile e immersiva; informazioni su oggetti di arredo; interazione immersiva con il Metaverso, dove ritrovare gli oggetti che si possiede nella realtà, per ricreare spazi familiari anche altrove. Alla ricerca del People Engagement Ma nell’ufficio del futuro potrebbero mancare le persone. I fenomeni del quite quitting e delle great resignation mostrano quanto si sia sfilacciato il legame tra i luoghi del lavoro e chi li dovrebbe abitare. Per questo, la vera sfida per le organizzazioni sarà ricreare il people engagement anche grazie a design e tecnologia. L’ufficio inteso come luogo in cui recarsi per lavorare, creare connessioni e relazioni non scomparirà, ma dovrà adattarsi alle esigenze delle persone attraverso un’attenta employee experience, che metta al centro il benessere psicofisico dei collaboratori. Il design, l’ergonomia e la personalizzazione avranno un ruolo centrale, potenziato da un approccio digitale sempre più pervasivo. Un miglior ambiente lavorativo permetterà di abbassare i livelli di stress, ma un ruolo chiave lo avranno anche le organizzazioni. Bisognerà lavorare sulla ricerca di un maggiore allineamento tra necessità del lavoratore e risorse presenti sul luogo di lavoro, che garantiscono prestazioni più elevate con maggiore soddisfazione e meno stress. Sarà necessario analizzare i carichi di lavoro, offrire feedback anche attraverso software digitali come BetterWork, e ridurre l’ambiguità del lavoro, all’origine di una relazione negativa stress-prestazione. La mancata corrispondenza di questi bisogni potrebbe portare all'abbandono del lavoro e dei suoi luoghi. L’ufficio del futuro sarà intelligente e automatizzato, sfrutterà i principi dell’ergonomia per garantire una maggiore produttività. Gli spazi di lavoro saranno flessibili e ibridi. Non mancherà lo smart working, ma anche uffici rurali, a domicilio, coworking e outdesking. Per creare il giusto people engagement bisognerà, dunque, lavorare su spazio e relazione, aggiungendo spazi che migliorino il worklife balance, integrando percorsi di carriera flessibili e inclusivi. Si incentiverà il lifelong learning attraverso la realtà aumentata, aumentando la connessione globale attraverso ologrammi e telepresenza 3D per lavorare con colleghi in tutto il mondo, abbattendo le barriere linguistiche. Gli spazi di lavoro saranno multifunzionali grazie al design modulare e flessibile. «Il lavoro si trasforma: non più un luogo fisico, ma uno stato mentale che esalta creatività e connessione, rendendo ogni ambiente un centro di collaborazione vibrante e senza limiti. In questa rivoluzione, le parole chiave sono Organizzazione, Tecnologia e Benessere. La Luiss Business School, attraverso un dialogo aperto con le nuove generazioni, esplora le future configurazioni degli spazi lavorativi, mentre Luxy pone al centro i bisogni emergenti per innovare con consapevolezza», ha dichiarato Fabrizio Vagliasindi, Communication Advisor Luxy. 19/04/2024

30 Agosto 2018

La definizione di un modello di leadership. Il caso Wind Tre

 Il 20 luglio si è svolto l’evento #BeLeaders di Wind Tre, che ha visto protagonista la LUISS Business School nell’accompagnare la trasformazione del modello di leadership dell’azienda, grazie al supporto scientifico e metodologico del People Management Competence Centre & Lab. Articolo di Gabriele Gabrielli, Professor of Practice in People Management, Human Resource Management and Organisational Behaviour LUISS Business School e Responsabile del People Management Competence Centre & Lab  Wind Tre S.p.A. è il più grande operatore mobile italiano con 31 milioni di clienti e con 2,7 milioni di clienti nel fisso.  La nuova azienda è nata a fine 2016 dalla fusione delle due società operative H3G S.p.A ("3") e Wind Telecomunicazioni S.p.A. (WIND) a seguito della joint-venture paritetica creata da CK Hutchison e VimpelCom (oggi VEON). Wind Tre si posiziona sul mercato delle TLC come un operatore integrato, con l’obiettivo di diventare un player di riferimento nell’integrazione fisso-mobile e nello sviluppo delle reti in fibra di nuova generazione nel nostro Paese. L’integrazione fra Wind e H3G rappresenta la più grande operazione di M&A in Italia dal 2007. Nell’ambito del complesso e ambizioso percorso di integrazione, l’azienda ha deciso di definire un modello di leadership comune a tutti gli executive di Wind Tre. Un progetto che nasce dalla consapevolezza che concentrarsi sull’integrazione di sistemi e processi non è sufficiente di per sé ad assicurare il successo di un’operazione di M&A di così ampio respiro. Altrettanto importante e strategica, invece, è la focalizzazione sulla dimensione immateriale e, in primis, sull’integrazione culturale. Il progetto di definizione del modello di leadership nasce proprio con la finalità di supportare e indirizzare il processo cultural integration di Wind Tre attraverso la condivisione di un modello di leadership comune per tutta la popolazione manageriale. Il modello, progettato e realizzato con il supporto scientifico e metodologico del People Management Competence Centre & Lab della LUISS Business School, si articola su tre dimensioni chiave in cui deve essere agita la leadership: la dimensione personale la dimensione relazionale la dimensione del business Per ciascuna di queste dimensioni, il modello elaborato identifica le competenze di leadership più rilevanti, definendo nel complesso 10 competenze ritenute critiche e prioritarie per l’azienda. L’elaborazione e implementazione del modello è il frutto di un processo articolato che si è svolto su quattro fasi principali: Prima fase: la fase iniziale di definizione del modello ha visto il coinvolgimento diretto dei membri del top management team, attraverso una serie di interviste semi-strutturate volte a far emergere le competenze e i comportamenti di leadership ritenuti più critici e rilevanti per realizzare la missione, i valori e la strategia di Wind Tre. Obiettivo primario era quello di raccogliere gli elementi necessari per gettare le fondamenta di un modello fortemente contestualizzato e con una chiara valenza strategica; Seconda fase: la fase di affinamento e sviluppo del modello ha coinvolto attivamente un’ampia parte della popolazione manageriale di Wind Tre attraverso una serie di focus group. Due obiettivi principali hanno guidato questa fase del progetto: stimolare un momento di confronto e condivisione sulla visione prospettica dell’azienda, del suo futuro e della leadership necessaria per ispirare il cambiamento e, allo stesso tempo, coinvolgere in modo trasparente e partecipativo le persone nella co-costruzione del modello stimolando il senso di ownership verso il progetto e favorendo il successivo buy-in del modello. Terza fase: il modello è stato validato dal vertice di Wind Tre. Quarta fase: la fase finale del progetto si è incentrata sul deployment del modello (fig. 1) attraverso un percorso che ha coinvolto, nelle prestigiose aule della LUISS Business School di Roma e Milano, circa 700 persone tra executive e middle manager. Figura 1 – Deployment del modello di leadershipIl percorso, concepito come un vero e proprio ‘leadership development journey’, è stato disegnato per creare un’esperienza fortemente interattiva e coinvolgente, alternando  workshop interattivi, gamification, attività individuali e di gruppo, storytelling, e un contest finale che ha premiato le storie di leadership, elaborate durante il percorso dai team (fig. 2). Due sono i principali obiettivi che il percorso ha consentito di raggiungere: (i) condividere con i vari livelli del management il nuovo modello di leadership facilitando la sua interiorizzazione; (ii) favorire la messa a fuoco delle competenze di leadership critiche e allenare i manager ad agire i comportamenti di leadership previsti dal modello nella propria sfera di responsabilità. Figura 2 - Leadership Development Journey: metodologia e struttura del percorso progettato per Wind Tre   30/08/2018

24 Aprile 2018

Riscoprire le emozioni: non è mai troppo tardi

Articolo di Gabriele Gabrielli, Professor of Practice in People Management, Human Resource Management and Organisational Behaviour LUISS Business School e Responsabile del People Management Competence Centre & Lab  Le competenze dell'intelligenza emotiva Non si fa che parlare di intelligenza emotiva e delle sue competenze: in convegni e seminari, nelle organizzazioni e in azienda. Le troviamo così nei repertori dei modelli di competenze usati dalle imprese per orientare il comportamento dei propri leader e manager, se ne fa ampio riferimento nelle policy e negli strumenti di performance management, costituiscono una tra le dimensioni più importanti da osservare durante gli assesment centre. Negli ultimi decenni abbiamo assistito in effetti alla crescita continua di attenzione verso l'intelligenza emotiva associata, in generale, a quella che sottolinea l'importanza delle soft skills e in particolare delle people skills per sviluppare leader e manager efficaci, capaci cioè di gestire con successo il capitale umano e intellettuale. Non è però così sempre facile scoprire il valore delle emozioni perché la carriera può metterle in silenzio come la storia di Alfredo che raccontiamo più avanti, una tra le molte, dimostra.  La concettualizzazione dell'intelligenza emotiva e le motivazioni che ne supportano la sua rilevanza per il business management e per le organizzazioni in generale hanno preso le mosse, come noto, dai risultati di alcuni studi che hanno reso evidente come l'intelligenza non si fonda solo su un fattore, ma sia multi-fattoriale. Infatti, comprendiamo quello che ci circonda, apprendiamo e comunichiamo con gli altri ricorrendo ai sensi e alle emozioni che consentono di "connetterci" più efficacemente. Di qui anche l'importanza assegnata alle competenze di comprensione e decodifica del linguaggio non verbale, che diventa una competenza centrale (comunicazione interpersonale) per leader e manager. Leadership e emozioni  Con il termine intelligenza emotiva, dunque, secondo i numerosi studi realizzati nel campo della psicologia e del comportamento organizzativo, s'intende comunemente l'abilità di scoprire e usare in modo opportuno i sentimenti e le emozioni proprie e quelle degli altri, distinguerle e comprenderle a fondo per costruire sulle stesse la propria visione e azione. Accrescere e migliorare le competenze di intelligenza emotiva, piuttosto che concentrarsi solo sull'intelligenza cognitiva, diventa dunque essenziale per le posizioni di guida in quest'epoca di cambiamento straordinario accelerato dalla trasformazione digitale che costruisce connessioni e interdipendenza tra sempre più numerosi attori. Per ispirare gli altri e costruire organizzazioni durature in un ambiente dai confini incerti e mutevoli, infatti, leader e manager devono essere in grado di generare "risonanza emozionale". Insomma, ci stiamo rendendo conto che per troppo tempo i manager hanno considerato le emozioni alla stregua di un rumore di fondo che disturbava la loro performance e il funzionamento razionale dell'azienda. Quest'epoca però sembra ormai volgere definitivamente al tramonto perché le emozioni trovato oggi piena cittadinanza nel management. Quando la competizione mette in silenzio le emozioni. Una storia tra le molte  Non è facile però, si diceva, dare piena cittadinanza alle emozioni. È l'esperienza di molti executive e manager; sono più numerosi di quanto possiamo immaginare. Gli ostacoli che non consentono alle emozioni di eprimersi liberamente, riconoscendone il loro valore generativo per sé e per gli altri, sono di diversa natura. Possono essere ostacoli collegati all'ambiente culturale e di business in cui si cresce e si fa carriera, possono essere attinenti più alla sfera personale, a come si è fatti, insomma una questione di carattere e di personalità. Rientra nel primo caso la storia di Alfredo, un "cinquantino" - direbbe il commissario Montalbano - un top executive e imprenditore di successo che dopo la laurea si "guadagna" l'accesso a due tra le più prestigiose business school internazionali. Diventato adulto, dimentica le emozioni, perde contatto con esse e non le riconosce più come dimensioni "utili". Scompaiono dal suo linguaggio, né vi trovano traccia in quello delle aziende di straordinaria fama in cui lavora negli anni successivi macinando successi e accumulando prestigio. Tutto questo ha avuto un inizio. Alfredo nel nostro secondo incontro mi racconta che il tempo di questa progressiva dimenticanza "ha avuto inizio quando ho cominciato a danzare con la competizione". Una danza così travolgente che gli fa perdere letteralmente il contatto con il sé più profondo e autentico. "Dov'è finito Alfredo?", è questa la domanda alla quale vuole ora dare risposta, è stanco di essere triste e insoddisfatto. Alfredo è consapevole di aver fatto l'esperienza della felicità quando era giovane studente, uno stato di grazia che è proseguito anche durante il percorso accademico seppur "tosto". Questa esperienza è venuta meno "dopo". Conversiamo per cercare il focus. La "smania da performance" - mi racconta a un certo punto - "mi ha fatto perdere contatto con la mia dimensione umana". Riflette, torna indietro, rimane in silenzio. Poi dice: "Sì, ho perso contatto con le emozioni quando sono entrato nel giro vorticoso della competizione delle business school che ho frequentato; poi tutto si è aggravato quando sono entrato in azienda, primo della short list". Da diversi anni Alfredo ha difficoltà a sentire e riconoscere le emozioni; tentenna nell'individuare i bisogni che ha e che sempre si celano dietro le emozioni che l'epoca della performance, dei benchmark e del misurarsi continuamente con chi sta sopra a te hanno silenziato. Mi parla dei figli e della moglie. L'unico momento in cui vedo negli occhi una luce diversa. Si spegne rapidamente sopraffatta dal racconto delle loro performance. Mentre l'ascolto, mi torna in mente un pensiero di Arthur Schophenauer. Prendo il libro dove è annotato, lo legge: "In realtà il valore che noi attribuiamo all'opinione degli altri e la nostra preoccupazione costante al riguardo oltrepassano di regola ogni ragionevole giustificazione [...] da tale preoccupazione nasce quasi la metà di tutte le afflizioni e le ansie da noi provate". Rimane in silenzio tamburellandosi la testa con le dite. Oggi Alfredo vuole connettersi nuovamente con sé, con i valori con cui è cresciuto e che ha sacrificato sull'altare del "giudizio altrui", vera e propria forca caudina se si vuole essere riconosciuti "primi". Ha iniziato a lavorare per ascoltare e accogliere le emozioni che "la smania della perfomance" ha reso silenti, vuole dare loro cittadinanza e riscoprirne il lessico che non conosce più. È talmente impoverito il suo vocabolario che non sa più etichettarle; si stupisce grandemente quando fa esperienza di questo davanti a me riuscendo a menzionare a mala pena tre emozioni. Per Alfredo insomma è arrivato il momento di consentire alle emozioni di uscire allo scoperto, di lasciarle fluire, di riconoscerle e utilizzarle come leva per stare bene e per ritrovare quella felicità che ha perduto danzando con la competizione. Probabilmente per scoprire che potrà essere più efficace come imprenditore e manager. Mentre ci stiamo salutando si ferma sulla porta e aggiunge: "anche come marito e padre". Suggerimenti bibliografici Gabriele Gabrielli, Sviluppare le competenze per il "people management", in Gabrielli G., Profili S., Organizzazione e gestione delle risorse umane, Isedi, Torino 2016 (II^ edzione) Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Feltrinelli, Milano, 1987 Goleman D., Working with emotional intelligence, Bantam Books, New York, 1998 Riggio R.E., Lee J., "Emotional and interpersonal competencies and leader development", in Human Resource Management Review, Elsevier, 17, pp. 418-426 Persone e processi eccellenti sono l’essenza di ogni organizzazione di successo. I programmi Executive dell’area “People, Organization Development & Leadership” della LUISS Business School forniscono conoscenze, metodologie e strumenti per valorizzare e gestire in modo strategico il capitale umano, disegnando architetture organizzative innovative in grado di supportare efficacemente i piani di sviluppo dell’organizzazione. Obiettivo dei programmi afferenti all’area è supportare la progettazione e l’implementazione di una “People Strategy” all’avanguardia, che permetta un’efficace execution della strategia aziendale, in maniera integrata e coerente in tutte le sue parti. SCOPRI I PROGRAMMI 24/04/2018

27 Febbraio 2018

Generare engagement nelle organizzazioni grazie a People e social skill

Articolo di Gabriele Gabrielli, Professor of Practice in People Management, Human Resource Management and Organisational Behaviour LUISS Business School e Responsabile del People Management Competence Centre & Lab  L'engagement continua a fare notizia, o meglio la sua carenza. La recente pubblicazione dell'indagine Gallup (State of Global Workplace, 2017) ci offre l'occasione per riflettere sul termine forse oggi più usato nel management. Vi ricorriamo, infatti, per indicare genericamente la motivazione dei collaboratori, lo usiamo però anche per sottolineare l'atteggiamento e i sentimenti che i clienti hanno nei riguardi dell'impresa. Per questo investiamo in tecnologia e organizzazione per tracciare e comprendere la user experience dei clienti. Customer engagement, employee engagement diventano così il nome di strutture organizzative negli organigrammi aziendali, nomi di progetti e task force dedicati a migliorare il livello di engagement. Nella prospettiva del People management, in particolare, usiamo questo termine per indicare uno stato particolare dei collaboratori che consente loro di coinvolgersi attivamente e con passione nella vita dell'organizzazione, una situazione invidiabile perché capace di attivare anche comportamenti discrezionali extra-ruolo. Engagement e performance economico-organizzativa A cosa dobbiamo questa crescente attenzione di imprenditori, executive e manager verso l’engagement? Come mai le direzioni HR dedicano impegno a misurare e migliorare i livelli di people engagement nell’impresa? Le risposte possibili sono numerose. Potremmo iniziare con il dire che far star bene clienti e dipendenti è un dovere dell’impresa. Di solito però questa risposta, su cui tutti si dichiarano d’accordo, non riesce in verità a eccitare più di tanto gli animi. C’è un’altra prospettiva capace di provocare energia e focus nei riguardi del tema. Numerosi studi e ricerche mostrano che le imprese che vantano elevati tassi di employee engagement presentano anche differenze significativamente positive in termini di performance rispetto alle imprese con più bassi tassi di coinvolgimento attivo dei collaboratori. La più recente indagine Gallup evidenzia, per esempio, che le imprese degli Stati Uniti che si collocano nel terzo quartile per livello di engagement della loro forza lavoro conseguono performance economiche migliori, quasi doppie, rispetto a quelle realizzate dalle imprese con livelli più bassi di engagement; inoltre hanno una produttività più alta del 17%, volumi di vendite che superano il 20% e livelli di profittabilità migliori del 21%. Ce n’è abbastanza per darsi da fare allora e costruire attorno all’engagement una vera e propria strategia di sviluppo dell’impresa. Queste evidenze suggeriscono inoltre di saldare strettamente le due prospettive: da un lato, quella di business che indossa le lenti della performance economico-organizzativa, dall’altro, quella di People Management, che associa a un elevato livello di engagement anche il benessere delle persone, un loro maggiore impegno e comportamenti che vanno “oltre” il dovuto. Cosa succede dalle nostre parti? Dall’ultimo rapporto emerge un quadro per nulla entusiasmante: solo il 10% dei lavoratori presenti nei paesi dell’Europa Occidentale sono engaged, ovvero entusiasti e coinvolti attivamente nel loro lavoro. Tra i Paesi europei la Norvegia presenta il livello di engagement più alto ovvero del 17%, mentre in Italia, Spagna e Francia siamo al di sotto del 10%. Sono dati impressionanti. Vuol dire che solo una minima parte dei lavoratori presenti nelle nostre organizzazioni sono attivamente coinvolti; la maggioranza mostra atteggiamenti di non ingaggio (not engaged) o di disingaggio attivo (actively disingaged). Abbiamo un gran lavoro da fare, perché c’è una miniera di energia nascosta nelle pieghe delle organizzazioni che aspetta di essere liberata. Quando le persone sono engaged? Le persone engaged si sentono emotivamente coinvolte nel lavoro che fanno e negli scopi dell’organizzazione, si sentono rispettate, vedono che il loro lavoro ha senso ed è considerato importante dai manager, hanno buone relazioni con colleghi e capi, sono sicure che all’impresa interessi il loro sviluppo personale. Come misurano tutto questo? Ebbene, le ricerche empiriche ci dicono che le persone osservano e valutano più di quanto si possa immaginare: le modalità con le quali viene gestita la loro performance, l’attenzione riservata loro in termini di feedback e suggerimenti, i riconoscimenti e il sostegno che ricevono dai capi per migliorare e progredire nel loro percorso di sviluppo la possibilità di partecipare a programmi di formazione. Tutto questo rafforza una consapevolezza: che le pratiche HR e le pratiche di leadership di un’organizzazione hanno tutte a che fare direttamente con l’engagement. Una consapevolezza importante che ci restituisce anche un maggior senso di responsabilità nel lavoro che facciamo. Che cosa possiamo fare per incrementarne il livello di engagement? Gli studi e le ricerche empiriche ci dicono che le persone engaged trovano stimoli importanti per alimentare e rafforzare questo loro atteggiamento nelle relazioni costruttive che instaurano con i manager. Sono tali quelle orientate soprattutto al futuro e non basate sulla valutazione critica, “giudicante”, del passato. Questo vuol dire che l’engagement, al quale si associano risultati di business migliori nelle imprese che ne possono vantare livelli superiori, è influenzato dalle capacità dei manager. Quali capacità? Forse la loro preparazione tecnica o l’apertura all’innovazione? La conoscenza dei mercati maturata in contesti internazionali? Le competenze di pianificazione e di controllo dell’organizzazione? In realtà hanno un ruolo chiave le people e social skill che, insieme, formano una costellazione particolare di competenze. Una costellazione di competenze, ampiamente studiate in letteratura, il cui sapiente uso da parte di leader e manager consente di dar vita a “conversazioni organizzative” ricche e generative che mettono al centro: il collaboratore e il suo progresso la performance e i risultati come espressione del suo potenziale i suoi punti di forza e l’autonomia come leve necessarie per meglio cogliere gli obiettivi progettuali. Sono conversazioni improntate all’ascolto reciproco e al rispetto, sono conversazioni sostenute da una comunicazione capace di adoperare diversi registri e da un’efficace e consapevole gestione dell’intelligenza emotiva. Da dove possiamo cominciare? Probabilmente dallo spostare un po’ di attenzione, energie e investimenti dalla “misura” (diventata una vera e propria ossessione), al “fare”, al “formare”, al “valutare” le competenze dei leader e manager in questo campo. Gli sforzi maggiori andrebbero così concentrati nel selezionare, formare e premiare leader e manager con un portafoglio eccellente di people e social skill. L’engagement infatti passa anche dal riconoscimento che leader e manager sono capaci di dare ai collaboratori, non dimenticando mai la loro unicità. Così, per imprese e organizzazioni dotarsi di leader e manager provvisti di eccellenti people e social skill diventa questione strategica; una questione che dovrebbe occupare sempre più anche l’agenda di investitori, azionisti e imprenditori, oltre che naturalmente quella di quanti hanno a cuore il benessere delle persone. Formare leader e manager in grado di ripensare le sfide HR in prospettiva strategica per incidere in modo progettuale in contesti organizzativi complessi, è l’obiettivo del corso Executive Human Resource Management. Il programma – in partenza il 14 settembre 2018 – si rivolge a chi già ricopre o è in procinto di ricoprire un ruolo di rilievo in ambito HR e che avverte l’esigenza di confrontarsi con nuovi stimoli, ampliare il proprio bagaglio di competenze e sviluppare il proprio network professionale. Si articola in 6 moduli da 2 giornate lungo l’arco di 7 mesi: il modulo “Energising the organisation” sarà dedicato alle pratiche HR e pratiche di leadership per incrementare il livello di engagement nelle organizzazioni. 27/02/2018

09 Gennaio 2018

L’approccio del Total Reward: qualche provocazione per recuperarne la sapienza originaria

Articolo di Gabriele Gabrielli, Professor of Practice in People Management, Human Resource Management and Organisational Behaviour LUISS Business School e Responsabile del People Management Competence Centre & Lab  L’approccio del Total Reward incrocia direttamente i temi critici dello Human Resource Management e del People Management in quest’epoca segnata dalla grande trasformazione del lavoro. Sono temi che rappresentano al tempo stesso sfide importanti per imprenditori, manager e professionisti dello sviluppo delle persone. Cos’è una sfida? La sfida – leggo dal dizionario Treccani - è una «provocazione, un atto che ha lo scopo di suscitare comunque una reazione da parte di altre persone». Il Total Reward sfida infatti a rileggere con lenti nuove e potenti molte questioni della gestione delle persone, gettando il guanto della provocazione in faccia alla leadership HR per scovare quella coraggiosa, aperta e inclusiva e lasciare al palo quella rattrappita su se stessa. La trappola degli incentivi  Per proporre la prima provocazione prendo spunto dalle pagine di un libro del filosofo statunitense Michael Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato. Si tratta di un lavoro molto interessante che indaga la questione se si possa comprare tutto con i soldi. Posta così la questione appare retorica, perché sollecita una risposta negativa, ossia che la vita (e le sue dimensioni) non può essere governata tutta dalla logica di mercato. Riformulo allora la questione e domando: siamo sicuri che non ci siano imprenditori, manager e HR convinti invece che con gli strumenti descritti nel quadrante “Pay” della nota matrice di successo formulata dai consulenti Brown e Armstrong nel 1999 si possa comprare davvero tutto? L’esperienza dice che ci sono e anche più numerosi di quanto si possa credere. Sono convinti che senza soldi non si possa far niente, così diventano incapaci - loro per primi - di immaginare impegni che non prevedano come ricompensa un premio economico. È questa la trappola degli incentivi. Chi non è caduto nella trappola sa bene che gli incentivi economici sono importanti, sa anche però che occorre ben altro per essere felici, per essere soddisfatti nel lavoro e lasciarsi coinvolgere emotivamente. Ecco allora una prima sfida importante che ci lancia il Total Reward: comprendere la vera natura dell’uomo, di che pasta siamo fatti, quali sono le motivazioni che spingono i nostri comportamenti e i bisogni da cui nascono. Total Reward per chi? Dunque, ecco la seconda sfida: ascoltare attivamente le persone. L’ascolto attivo chiama in causa tutti i sensi. Non si ascolta attivamente se utilizziamo solo l’intelligenza cognitiva. D’altro canto abbiamo imparato ormai da decenni, grazie alle ricerche di studiosi come Herbert Simon, che la razionalità umana è limitata, che gli uomini non sempre scelgono razionalmente, che le organizzazioni sono reti complesse di decisioni e piuttosto ambigue. Adam Smith, quasi tre secoli fa, scriveva nel volume Teoria dei sentimenti morali mentre andava alla ricerca di ciò che muove l’uomo (un vero e proprio studio sul comportamento organizzativo), che le persone alla fine desiderano sentirsi amate e utili. L’approccio del Total Reward, allora, diventa straordinaria occasione per verificare se e quanto le imprese e le funzioni HR sono attrezzate in questo campo, se sanno ascoltare in profondità cosa muove una persona. La sfida che lancia è l’invito ad abbandonare la ricerca di scorciatoie che non portano da nessuna parte (gli incentivi, talvolta, rappresentano una scorciatoia pericolosa e fallace) per farci carico direttamente di comprendere le strutture motivazionali, i bisogni e le attese, le motivazioni e le preferenze di ciascuno. Si tratta di una sfida che illumina con una luce diversa gli investimenti in ricerca, facendoci capire quanto sia importante conoscere i suoi esiti per diventare buoni people manager. Come si può pensare, in effetti, di gestire bene le persone, potenziarne la performance e cercarne l’engagement, senza l'aiuto della ricerca psico-socio-organizzativa? Generazioni o età? L’esercizio dell’ascolto attivo va praticato anche per comprendere le preferenze delle diverse generazioni presenti in azienda. L’approccio generazionale presenta però anche zone d’ombra. A livello accademico c’è molta discussione al riguardo e si dibatte se non sia preferibile assegnare centralità all’approccio fondato sull’età. Ai fini di questa riflessione, ciò che conta è che anche gli studi fondati sull’approccio generazionale ci sfidano a percorrere la strada sopra indicata, un percorso contrassegnato da queste domande: gli incentivi e i premi che stiamo progettando sono attrattivi e motivano i più giovani? I giovani di tutte le generazioni? E le persone più mature? Cosa si aspettano e preferiscono gli uni e gli altri? Disponiamo di conoscenze e dati solidi per non cadere in un’altra trappola, quella dei pregiudizi e degli stereotipi che ci fa indossare lenti che distorcono la realtà? Meglio guardare da vicino allora, direttamente e senza troppi filtri. Gestire le risorse umane in questa prospettiva significa incorporare - nella progettazione di sistemi e strumenti e nella pratica quotidiana della presa di decisioni - la dimensione della “prossimità”. Una prossimità intesa come comprensione più autentica della persona - accolta nelle sue dimensioni cognitive, emotive e affettive- che vive un tempo e un contesto specifici. L’orizzonte della prossimità e le sue componenti diventano così il parametro attraverso cui misurare l’efficacia delle politiche e della performance delle funzioni HR. A proposito delle zone d’ombra cui accennavo sopra, in un recente articolo domandavo: “Sappiamo davvero cosa vogliono i Millennials dal lavoro?” Ponevo più in particolare una serie di domande. Cosa attrae i più giovani al lavoro? Quali sono i fattori che i Millennials mettono al primo posto quando cercano o si trovano nelle condizioni di poter scegliere un’occupazione? È prioritario per loro il livello di ricompensa economica o la corrispondenza dei contenuti del lavoro con i valori in cui credono e che vogliono perseguire anche nelle organizzazioni con cui collaborano? Sono più concentrati sugli interessi personali o credono che sia importante contribuire con il loro lavoro a cambiare in meglio il mondo in cui viviamo? Sono poi davvero disponibili a mettere in secondo piano una brillante carriera pur di garantirsi una buona qualità della vita? Ho segnalato come le ricerche non siano univoche al riguardo, tutt’altro. Al di là dell’Atlantico sembra che le generazioni sono più alla ricerca di senso nel lavoro, al di qua pare invece più spinte da maggiore concretezza e pragmatismo. L’approccio del Total Reward ci sfida a non essere superficiali e frettolosi, a investire in conoscenza del contesto in cui si opera senza lasciarsi affascinare dalle retoriche che sempre abbondano. Soprattutto ci invita a dare valore alle molte componenti di premio che i luoghi di lavoro celano, a scoprirne di nuove, a personalizzarle in funzione delle caratteristiche individuali, dei valori in cui le persone credono, dell’età, delle esperienze che fanno. La sfida più significativa che il Total Reward oggi lancia allo Human Resource Managament e ai capi è quella che chiede di trovare risposte adeguate per gestire scambi più sofisticati di quello economicistico e meramente transazionale cui siamo per lo più abituati. Recuperare la sapienza originaria Bisogna recuperare così la sapienza originaria del Total Reward, che prioritariamente non è quella di risparmiare sul costo del lavoro o cogliere le opportunità di efficienze fiscali offerte dalla legislazione. Certo, anche queste sono risultati importanti, costituendo benefici significativi da cogliere. Ma il cuore del Total Reward pulsa altrove. Il suo significato più prezioso risiede nella capacità di ri-orientare radicalmente la gestione delle persone: da un approccio transazionale - basato sullo scambio di prestazioni - a uno relazionale, fondato sulla conoscenza delle aspirazioni professionali e personali di gruppi e individui. Anche il welfare aziendale, allora, i suoi piani e le sue iniziative, si colorano di una tinta nuova capace di arricchirne il significato per valorizzarlo quale componente significativa del Total Reward che va evidenziando lo spazio di una corrispettività più ampia nel lavoro entro la quale gestire uno scambio anche sociale. Una prospettiva che consente di lavorare – con leve più articolate - anche sull’engagement per ricercare quel coinvolgimento attivo delle persone capace di generare comportamenti extra ruolo, non richiesti e per nulla scontati. Quei comportamenti che possono fare davvero la differenza, anche in termini di performance e produttività come ho scritto altrove, tra un’impresa e un’altra. Bibliografia Gabrielli G., Ricompensare: sistemi di Rewarding e politiche retributive, inGabrielli G., Profili S., Organizzazione e gestione delle risorse umane, II edizione, Isedi, Torino 2016 Gabrielli G., Politiche remunerative e partecipazione, in Carcano M., Ferrari R., Volpe V. (a cura di), La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, Guerini Next, Milano 2017 Sammarra A., Profili S., La diversità di età nei contesti di lavoro. Sfide organizzative e implicazioni per il People Management, Franco Angeli, Milano 2017 Sandel M., Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2015 Smith A., Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano 1995 09/01/2018

08 Novembre 2017

La comunicazione interna nell’epoca della trasformazione digitale

Insight di Gabriele Gabrielli, Adjunct Professor di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane e di Sistemi di Remunerazione e Gestione delle Risorse Umane presso l’Università LUISS Guido Carli; Responsabile del People Management Competence Centre & Lab della LUISS Business School.  Tre emergenze che aspettano risposte da leader e manager A cosa serve la comunicazione aziendale e in particolare quella “interna” nell’epoca della Quarta Rivoluzione Industriale? Che finalità dovrebbe avere? È più rilevante e decisiva per lo sviluppo del business e dell’impresa? In quali aree la comunicazione interna può aiutare a realizzare le strategie dell’impresa? Con quali mezzi? Sono domande importanti e ineludibili per quanti gestiscono imprese e organizzazioni, guidando persone e team. Sono alcune delle domande alle quali ha cercato di rispondere la giornata “Comunica Impresa 2017. I nuovi target della comunicazione aziendale” organizzata da ASCAI – Associazione per lo sviluppo della comunicazione aziendale in Italia, il 29 settembre 2017 a Torino, in occasione della quale sono stati anticipati i risultati di un’ampia e articolata ricerca condotta dall’Università Cattolica, in collaborazione con l’European Association for Internal Communication, intitolata “Gli approcci strategici alla comunicazione interna nelle grandi imprese operanti in Italia”. Un approfondimento su una tematica di frontiera dedicato a tutti i professionisti interessati a specializzarsi nell’area del People Management, dove i percorsi che la LUISS Business School offre, propongono modelli, metodi e strumenti per intervenire in modo innovativo ed efficace nella gestione consapevole e integrata delle persone nelle organizzazioni. Il corso Human Resource Specialist, in partenza a novembre, permette ai partecipanti di confrontarsi con tematiche e sfide di grande attualità nei contesti organizzativi e acquisire, grazie ad una metodologia didattica di tipo esperienziale e ricca di contaminazioni, molteplici prospettive di interpretazione delle principali questioni dello Human Resource Management. La ricerca  Alla ricerca hanno partecipato 159 aziende di grandi dimensioni operanti in Italia. Significativo questo spunto che ci offre l’indagine: «Tra le principali sfide che la comunicazione interna dovrà affrontare durante il prossimo triennio i rispondenti ritengono molto o moltissimo importanti le seguenti tre: l’evoluzione digitale e il social web (70,6% dei rispondenti), l’allineamento della comunicazione interna con la strategia aziendale (66,5%) e il rafforzamento del ruolo della comunicazione interna a supporto del processo decisionale del top management (62%)». Tra le molte altre evidenze segnaliamo queste: Nel 61% delle aziende rispondenti esiste una specifica funzione dedicata alla comunicazione interna che dipende, da un punto di vista organizzativo, nel 29.6% dei casi dalla funzione Corporate Communications, nel 24.5% dall’Alta Direzione e nel 16.3% dalle Risorse Umane. La comunicazione interna, nella maggioranza dei casi, è gestita in modo centralizzato. Le strutture della comunicazione interna sono “leggere”, occupano infatti nel 31% dei casi una sola persona, nel 43 % due o tre persone, nel 14.6% da quattro a sei persone e nell’11.4% più di sette. Il numero degli addetti è rimasto invariato nella maggioranza dei casi, anche se è interessante rilevare che in oltre il 30 % delle imprese che hanno partecipato alla ricerca l’organico assegnato alle strutture di comunicazione interna è aumentato e che circa un 30 % delle aziende rispondenti ha pianificato di aumentare il numero delle persone dedicate nei prossimi tre anni. In oltre il 60% delle aziende, la comunicazione interna dispone di un proprio budget che destina a sostenere la realizzazione di uno specifico piano di comunicazione interna, presente nel 55% delle aziende rispondenti. Tra i canali e gli strumenti di comunicazione interna utilizzati, gli incontri face-to-face continuano a mantenere la leadership, così come hanno ancora un peso significativo i media cartacei. La Digital Transformation cambia la vita anche alla comunicazione È evidente che la Digital Transformation coinvolge appieno anche la comunicazione aziendale, la sua funzione (ragion d’essere, missione) e le modalità con cui trova espressione (competenze, strumenti). Le imprese stanno cambiando radicalmente i loro modelli di business soprattutto a causa di tre fattori: L’uso diffuso di internet e la possibilità che qualunque oggetto possa dialogare con un sistema interconnesso. L’Internet delle Cose è un fenomeno, già attuale, che crescerà enormemente in pochissimo tempo. C’è una ricerca del World Economic Forum che prevede che nel 2025 ci saranno mille miliardi di sensori connessi a Internet che dialogheranno, si scambieranno dati continuamente, converseranno tra di loro attraverso un flusso continuo di dati. Ecco allora una prima emergenza comunicativa da affrontare: saremo sempre più immersi in un mare di dati non solo nella vita ma anche dentro le organizzazioni. Un mare di dati che può creare disorientamento anche profondo. Chi darà loro un significato? Chi “unirà i puntini” delle connessioni dando loro un senso? Crescerà a mio modo di vedere il fabbisogno di costruzione di senso fuori e dentro le imprese. Il secondo fattore che agevola il cambiamento dei modelli di business è la facilità con cui è possibile interconnettersi dai dispositivi mobili. In realtà oggi non è solo più facile diventare cittadini dell’epoca digitale, è anche una possibilità sempre più a buon mercato. I prezzi infatti continuano a scendere. Jeremy Rifkin intuiva quasi venti anni fa che questa condizione – la possibilità di connettersi – sarebbe diventata decisiva per vivere, perché stavamo entrando nell’ “Era dell’accesso”. Che implicazioni ha tutto questo per la comunicazione e le sue categorie come la scelta dei target? A chi si rivolgerà la comunicazione? Avrà destinatari privilegiati da coltivare? Semplificando, le possibili scelte tra le complesse questioni che presiedono alle decisioni di segmentazione sono racchiuse in una dicotomia: connessi o non connessi. A mio modo di vedere, è qui che si gioca la partita decisiva del coinvolgimento delle persone nella vita organizzativa che lascia immaginare gli spazi per il sorgere di una seconda emergenza comunicativa, quella che si muove cioè tra l’adozione di politiche e strumenti di comunicazione di inclusione e cittadinanza verso politiche di comunicazione che allargano l’esclusione individuando forme nuove di povertà dentro le organizzazioni. Il terzo fattore che innova i modelli di business delle imprese – e con essi anche la comunicazione –sono le piattaforme web, sofisticati sistemi dotati di intelligenza e alimentati da algoritmi, che rivoluzionano drammaticamente il modo di produrre beni e servizi, dialogano direttamente con clienti e dipendenti e sono capaci di disintermediare tutto. Saltano così, o siamo obbligati a riscriverli radicalmente, processi come la pianificazione, il budgeting, la produzione. Le nuove piattaforme scompaginano modelli, competenze, modalità di coordinamento e sicurezze acquisite. Effetti analoghi, sul piano della comunicazione, producono le Reti sociali e le potenzialità dei media digitali che scuotono profondamente le fondamenta delle architetture su cui sono stati scritti finalità, attori, strumenti e piani di comunicazione interna. Ora tutto si avvicina, tutto è a portata di mano. Nel nuovo contesto, bisogna così rileggere le categorie “spazio” e “tempo” dei tradizionali canali di comunicazione, perché la comunicazione diventa diretta, lasciando dietro di sé molti dei numerosi filtri che sempre l’hanno accompagnata nei luoghi organizzativi. Annullata la distanza tra top management e collaboratori, ridimensionata l’importanza della catena di comando ecco allora che si affaccia la terza emergenza comunicativa. Si tratta della scoperta, dai risvolti per certi aspetti inediti, delle potenzialità dell’incontro diretto e non mediato. Un incontro però che mette a nudo gli interlocutori, disvelando così quanto stia diventando sempre più importante essere onesti e autentici nella comunicazione, pena la perdita di reputazione. Non sono solo le aziende a rischiare di più, ma anche gli Executive. L’esposizione cresce, è inevitabile. Nel dialogo c’è maggiore esposizione, nell’epoca della comunicazione 2.0 le accresciute possibilità di partecipazione svelano così, insieme alle straordinarie opportunità, nuovi rischi. I leader comprendono che la comunicazione nell’epoca della trasformazione digitale diventa un “abito” della leadership che non si può dismettere, leva per attivare conversazioni organizzative. Un terreno nuovo per la comunicazione, un territorio da esplorare che il top management sta cercando di capire e occupare. Le nuove frontiere della comunicazione interna Su queste linee di sviluppo si muoverà anche l’evoluzione dei comunicatori. Sulla frontiera si corrono sempre più rischi che altrove, ma è in questi luoghi che si possono fare anche nuovi incontri, quelli che possono cambiarti la vita, aprendola a nuovi significati, e modificarne l’impatto su quella organizzativa. La comunicazione interna potrà giocare allora un ruolo strategico per rispondere alle nuove emergenze, dando un contributo decisivo a persone, leader e business. Come? Aiutando le persone a costruire “senso”, fornendo loro contenuti e strumenti per “unire i puntini” di una vita organizzativa sempre più veloce e investita da un mare di dati che abbisognano di correlazioni e significati. Per questo la comunicazione può assumere un prezioso e quanto mai necessario ruolo di orientamento. L’esito potrà sfociare anche in una performance migliore, alimentata da una accresciuta e generativa consapevolezza riguardo la situazione, le sfide e le attese dell’impresa nei confronti delle persone. Proponendosi come un insieme di valori, competenze, metodologie e strumenti utili per includere le persone nella vita organizzativa (missione e obiettivi) come “cittadini” e non riduttivamente come “risorse”. L’esito sarà una motivazione più solida e diffusa, sostenuta dalla disponibilità delle persone a lasciarsi coinvolgere più attivamente. Facilitando l’attivazione, il mantenimento e lo sviluppo di “conversazioni organizzative” che valorizzano la partecipazione e possono ottenere livelli superiori di engagement delle persone. La comunicazione leva di engagement  Top management e leader stanno comprendendo così che maggiore produttività, profitti e reputazione – come ho scritto in un altro articolo - passano per questa via, un sentiero per nulla agevole ma non aggirabile se si vogliono perseguire obiettivi di eccellenza. Leader ed Executive sono sempre più consapevoli, infatti, che per coinvolgere attivamente ed emotivamente collaboratori e clienti nella vita dell’impresa, strategia ineludibile per creare vantaggi competitivi, occorre poter contare anche su una comunicazione all’altezza delle sfide che sappia contribuire in misura decisiva alla “formulazione delle decisioni aziendali di carattere strategico”. Ritornando alla ricerca ricordata in apertura, c’è un ruolo della comunicazione interna già presente in alcune esperienze cui orientare lo sguardo, quello di “Strategic Facilitator”, la cui diffusione probabilmente dipenderà da quanto le donne e gli uomini impegnati in quest’attività di servizio sapranno contribuire a rispondere, con passione e intelligenza, alle emergenze comunicative che ho tratteggiato.   Suggerimenti bibliografici ASCAI-Università Cattolica (a cura di Roberto Nelli), “Gli approcci strategici alla comunicazione interna nelle grandi imprese operanti in Italia”, ASCAI Gabrielli Gabriele, “Engagement: una miniera nascosta di produttività. Cosa possono fare le imprese i manager?”, in Leadership & Management Magazine Rifkin Jeremy, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, 2001 Schwab Klaus, La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano, 2016 WEF (World Economic Forum), Deep Shift. Technology Tipping Points and Societal Impact, 2015   08/11/2017

23 Giugno 2017

Corporate university italiane in evoluzione: i risultati della ricerca condotta dal People Management Competence Centre & Lab della LUISS Business School

Qual è lo stato dell’arte sul tema delle Corporate University (CU) in Italia? Non è facile fornire una risposta univoca, di certo però le CU rappresentano oggi un fenomeno emergente per le imprese che cercano un approccio più strategico e meno “tradizionale” alla gestione della formazione. Il People Management Competence Centre & Lab della LUISS Business School – in collaborazione con Amicucci Formazione – ha condotto una ricerca dal titolo “Tendenze nella Formazione e ruolo delle Corporate University” con l’obiettivo di mettere a confronto i modelli e le pratiche emergenti nella formazione nelle principali aziende italiane, analizzando in particolare il  ruolo delle Corporate University. L’indagine ha previsto come strumento principale un questionario inviato ai responsabili delle strutture formative di 100 tra le principali organizzazioni italiane. Dai dati è emerso che la collocazione organizzativa delle realtà coinvolte segnala ancora qualche difficoltà nel riconoscere alle CU un ruolo strategico. Tra le funzioni analizzate dall’indagine, infatti, una sola riporta direttamente al vertice aziendale, mentre nelle altre prevale una collocazione alle dipendenze dell’HR e, in un numero limitato dei casi, della funzione Learning & Development. Un quadro interessante emerge rispetto all’evoluzione delle strutture registrata negli ultimi cinque anni. Crescono le attività svolte dalle CU, ma non le risorse assegnate alla funzione, che rimangono invece stabili. Un dato che con molta probabilità segnala la presenza di strategie di internalizzazione delle attività formative con una duplice finalità: da un lato, l’insourcing di attività persegue l’obiettivo di razionalizzare i costi esterni della formazione in un periodo di crisi economica e di mercati instabili, dall’altro l’intento di ricercare una maggiore produttività delle risorse impiegate nelle strutture formative. Efficienza ma anche qualità delle competenze sembrerebbero essere i criteri che ispirano la creazione di un corpo docenti interno. Sostanzialmente tutte le aziende del campione hanno una Faculty interna i cui componenti sono individuati sulla base della segnalazione della Linea o della funzione HR. Nella maggior parte delle esperienze indagate è prevista un’offerta formativa dedicata alla Faculty, anche se meno della metà ha un albo docenti e solo un terzo ha formalizzato delle policy per la gestione della Faculty (es. impegno richiesto, modalità di convocazione). Un ultimo aspetto di rilievo riguarda gli ambiti di attività che impegnano le CU.  Mentre la letteratura individua nello “span of scope”, ovvero l’ampiezza dei filoni in cui è attiva al di là della formazione, una caratteristica distintiva delle CU, i risultati della ricerca mostrano invece ancora una forte focalizzazione di queste strutture sulle attività di formazione e, tutt’al più, di sviluppo delle risorse umane. È vero però che le CU con  uno stadio di sviluppo organizzativo più avanzato sono impegnate anche in attività di ricerca, innovazione e di knowledge management. L’indagine condotta dal Competence Centre conferma che il percorso di sviluppo delle Corporate University italiane è ben avviato, registrando anche un’indubbia accelerazione rispetto al passato, in virtù della consapevolezza che l’investimento nelle competenze rappresenta un fattore strategico di successo per le imprese. Come evidenziano i ricercatori della LUISS Business School “lungo il cammino che vede all’orizzonte un ruolo significativo per queste funzioni ci sono però ancora incertezze di direzione che tengono le nostre Academy aziendali ancora a distanza dalle più consolidate esperienze internazionali. Sono incertezze che rallentano il contributo strategico atteso che richiede leadership autorevoli e coraggiose capaci di rendere visibile tutto il valore da estrarre”.  (Articolo a cura del People Management Competence Centre & Lab della LUISS Business School) 23/06/2017