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30 Novembre 2020

Too big to gain? Chi guadagna dalle fusioni nel settore bancario

di Paolo Boccardelli, direttore Luiss Business School, pubblicato su la Repubblica Affari & Finanza, 30 novembre 2020  La recente pandemia ha contribuito ad aumentare i rischi di credito per le banche, accelerando alcuni trend tra i quali, in particolare, il consolidamento del settore. È il regolatore stesso che ha impresso un cambiamento alla sua strategia, un tempo poco incline all’integrazione tra banche senza l’avvio di costosi processi di aumento di capitale: oggi appare più favorevole, concedendo alle banche acquirenti l’opzione di portare a patrimonio il badwill della banca target. Persino le politiche nazionali di risposta alla pandemia sono diventate un fattore incentivante: basti pensare alla possibilità introdotta dal Governo italiano per le società che approveranno un'operazione di fusione nel 2021 di trasformare fino al 2% del patrimonio target in crediti d'imposta. Misure e stimoli utili a favorire le aggregazioni, nell’ipotesi che banche più grandi resistano meglio alla crisi. Ma a fronte di un possibile vantaggio di solidità, ben presente nella visione degli organi di vigilanza, Luiss Business School ha analizzato il legame tra la crescita dimensionale delle banche e i rendimenti per gli azionisti: ebbene, su un campione di oltre 3500 osservazioni di banche europee nel periodo 2010-2019, la ricerca ha messo in evidenza che la crescita dimensionale delle banche riduce la redditività per gli azionisti. Tale relazione negativa, tuttavia, viene moderata dall’adozione di specifici modelli di business e dalle capacità di gestione del credito. Nel dettaglio, è stato osservato che, a parità di altre condizioni, la crescita degli attivi e lo sfruttamento delle economie di scala per banche di minori dimensioni genera impatti positivi sul ROE, ma superata una soglia di circa 50 miliardi di euro, il contributo alla redditività per gli azionisti diventa negativo. La pendenza negativa di tale relazione, tuttavia, dipende dal tipo di modello di business adottato: le banche che lavorano con un modello di business più tradizionale fondato sul retail e con una leva inferiore per il funding presentano una relazione tra crescita dimensionale e redditività per gli azionisti meno negativa. In aggiunta, per tutte le banche, la capacità manageriale di gestire i rischi in modo proattivo risulta determinante. La ricerca ha preso in considerazione il “NPL ratio”, rappresentato dal rapporto tra i crediti deteriorati e il totale dei crediti, e il “migration rate”, ovvero il tasso di migrazione da crediti in bonis a crediti in sofferenza. La capacità di gestione del credito e di questi due indicatori ha effetti eterogenei in relazione alle dimensioni. In particolare, nelle banche più piccole e con impieghi inferiori a circa 23 miliardi di euro, la crescita del tasso di deterioramento dei crediti genera impatti significativamente negativi sui rendimenti per gli azionisti. Viceversa, le banche di maggiori dimensioni riescono ad assorbire la crescita del tasso di deterioramento senza effetti negativi sulla redditività e, anzi, mostrano una rilevante capacità di identificare opportunità di riprese di valore anche in presenza di un superiore migration rate. Tali risultati appaiono ancora più significativi in mercati a bassa crescita economica e sotto la media dell’area Euro, quali l’Italia. È pertanto nella gestione del rischio e dell’ottima allocazione del capitale verso gli impieghi che si gioca la partita della profittabilità bancaria. Questi risultati si inseriscono nel trend di rivoluzione digitale che sta vivendo il settore. Nel futuro business bancario sarà imprescindibile prevedere la trasformazione del core banking verso sistemi cloud e modelli di sviluppo agile, in cui la capacità innovativa e di costruzione di partnership con operatori digitali e del fintech rappresenteranno un fattore tanto importante quanto la scala degli investimenti. Ed è proprio alla luce di queste considerazioni che debbono essere interpretate le operazioni di M&A in Italia e in Europa. Il consolidamento e la crescita dimensionale restituiscono al mercato operatori più solidi e in grado di dispiegare su una base di clienti più grande la capacità innovativa e di trasformazione che il digital banking può offrire. Ma senza il favore di BCE e governi e senza gli incentivi, in particolare quelli fiscali delle DTA (imposte attive differite) nelle operazioni di integrazione, non appare per nulla scontato estrarre valore da tali operazioni, poiché è forte il rischio di vedere vanificate le economie di scala, soprattutto se le operazioni stesse non sono condotte da soggetti dotati di quella elevata capacità gestionale che solo alcuni leader di mercato possono fornire. Pertanto, se viene confermata la volontà di consolidare ulteriormente il settore bancario in Europa per ridurre i futuri rischi di default, risulta necessario insistere sulla presenza di incentivi fiscali a favore delle aggregazioni, poiché altrimenti gli azionisti delle banche in odore di integrazioni potrebbero non considerare convenienti tali operazioni, non solo per motivi legati alla governance, ma anche per le difficoltà di remunerazione dei loro investimenti.

24 Settembre 2020

AICAI e Luiss Business School: regole più semplici e uniformi per il rilancio dell’economia italiana

La ricerca Luiss Buisiness School e AICAI-Associazione Italiana dei Corrieri Aerei Internazionali ha messo in evidenza che durante i mesi del lockdown sono stati proprio i corrieri aerei internazionali ad assicurare la continuità dei rifornimenti ai presidi medici in tutto il mondo e a impedire il blocco totale dell’economia mondiale     A distanza di 10 anni dall’ultima pubblicazione, un nuovo Libro Bianco realizzato da Luiss Buisiness School “Il ruolo dei corrieri aerei internazionali: dall’economia dell’emergenza all’emergenza dell’economia” fotografa l’impatto sull’economia italiana dei soci AICAI, l’Associazione Italiana dei Corrieri Aerei Internazionali, di cui sono parte i tre principali player mondiali del settore, DHL, FedEx e UPS. Oltre 52.000 lavoratori tra indotto e dipendenti diretti, un fatturato superiore ai 3 miliardi di euro, 300 voli settimanali da e per l’Italia, 7.000 veicoli, 133,5 milioni di spedizioni di cui 28,8 milioni in esportazione: questi i numeri “italiani” 2019 di AICAI, il cui impatto che si è compreso nella sua interezza proprio in occasione dell’emergenza COVID: durante i mesi del lockdown infatti, sono stati proprio i network proprietari dei tre grandi player ad assicurare la continuità dei rifornimenti ai presidi medici in tutto il mondo oltre ad impedire il “fermo macchina” totale all’economia mondiale. Un ruolo che è valso il pubblico riconoscimento di servizio “essenziale” da parte delle Istituzioni. Adesso si affaccia un’altra “emergenza”, quella di un’economia che tra lo shock-Covid e l’imminente attivazione della Brexit è in continua fibrillazione e necessita di un immediato rilancio che i soci AICAI sono pronti ad affrontare. Rilancio che può avvenire solo attraverso l’export, l’unico fattore a sostenere l’economia nazionale dopo la crisi del 2008 e key-driver per la crescita del PIL, affiancando le PMI nella ricerca di opportunità internazionali nell’ e-commerce B2C e B2B. Solo il 2,9% delle imprese nazionali esporta e i corrieri aerei si propongono quindi come facilitatori per le imprese, specie per le PMI che generalmente non dispongono dei mezzi necessari per sostenere i costi connessi all’internazionalizzazione. Il modello di business unico dei corrieri, che collega il mondo, rappresenta un’enorme opportunità che può innescare un circolo virtuoso per l’economia italiana e l’esportazione delle merci ad alto valore aggiunto del Made in Italy se meglio compreso e supportato dalle istituzioni. Il settore dei corrieri aerei espressi genera il 40% dei ricavi dell’intero segmento cargo aereo. Al riguardo è importante sottolineare che per le esportazioni verso Paesi extra-UE, sebbene nel 2016 il traffico cargo aereo abbia movimentato solo lo 0,74% dei volumi esportati, il controvalore economico è stato pari al 25,8% del totale, con una crescita del valore medio trasportato che dal 1999 al 2018 è stata circa 15 volte superiore a tutte le altre modalità di trasporto. “In un momento in cui non vi sono punti di riferimento – ha commentato il Presidente AICAI Alessandro Lega – offriamo la certezza di network proprietari e di flotte capaci di arrivare dovunque e comunque: l’Italia è un Paese di 60 milioni di abitanti, a fronte di 7 miliardi di popolazione globale: e come dimostra lo studio, l’export è l’unica possibilità per le sue piccole, medie e grandi imprese di crescere. I corrieri aerei sono dei facilitatori naturali del business, e le Istituzioni devono agevolare la nostra specificità consentendoci di lavorare con regole semplici, chiare e uniformi in campo aeroportuale, doganale e urbano”.   “L’insieme delle dinamiche analizzate ci ha permesso di identificare le policy necessarie a supportare il settore e più in generale l’export delle PMI, all’indomani di un’emergenza sanitaria che ha accelerato la trasformazione digitale del Paese. Sostenibilità e semplificazione sono le linee guida di questo piano di intervento per il mondo dei corrieri aerei espressi, in termini sia di transizione verso veicoli a minor impatto ambientale, sia di semplificazione normativa, di regole uniformi che facilitino la pianificazione degli investimenti negli hub aeroportuali nazionali e di una regolamentazione più efficiente” ha concluso Matteo Caroli, Associate Dean for Internationalisation Luiss Business School.  L’evento, che si è tenuto presso la sede Luiss Business School di Villa Blanc, ha visto la partecipazione dei principali interlocutori dei soci AICAI, un panel di alto profilo composto da Giuseppe Catalano, Coordinatore della struttura tecnica di missione del Ministero dei Trasporti, Carlo Ferro, Presidente dell’ICE, Giovanna Laschena, Vice Direttore Centrale Economia e Vigilanza Aeroporti, ENAC – Ente Nazionale Aviazione Civile e Marcello Minenna, Direttore Generale dell’Agenzia delle Dogane. In streaming sono intervenuti anche Marco Granelli, Assessore alla Mobilità del Comune di Milano e Coordinatore del Tavolo Mobilità ANCI e Enrico Stefano, Presidente Commissione Servizi Pubblici Locali ANCI e Presidente III Comm.ne Consiliare Permanente Mobilità, Comune di Roma. Insieme ad Andrea Ferro di Radio 24 e ad altri due tra i massimi esperti italiani del settore trasporti, Vincenzo Visco Comandini e Massimo Marciani, è stato avviato un dibattito sugli output del Libro Bianco presentati dai Professori Matteo Caroli e Umberto Monarca di Luiss. SFOGLIA IL LIBRO BIANCO EXECUTIVE SUMMARY ITA EXECUTIVE SUMMARY EN 24/9/2020

20 Aprile 2020

Negli ultimi 16 anni in crescita l’età media di Presidenti e AD delle società quotate

Alla vigilia delle nomine delle partecipate pubbliche, Luiss Business School ha analizzato l’età media di presidenti e amministratori delegati delle prime 40 aziende italiane quotate presenti nell’indice FTSE Mib dal 2003 – anno della costituzione dell’indice - a oggi. dal 2003 al 2019 l’età media dei presidenti è passata da 60,6 a 62,5 anni, quella degli amministratori delegati da 52,6 a 56,3 anni ed è oggi in linea con la media dei primi 16 Paesi al mondo.   L’innalzamento dell’età media dei vertici aziendali è un trend internazionale: riflette il consolidamento di esperienza dei top manager e l’allungamento dei periodi al vertice, che a livello globale è pari a 6 anni.  Per garantire il prossimo ricambio generazionale ed essere più vicini alle nuove generazioni di lavoratori e consumatori, è necessario investire per formare la classe dirigente del futuro.  Nel 2003 l’età media dei presidenti era di 60,6 anni, quella dei CEO di 52,6. Per quanto riguarda i diversi settori, nel comparto finanziario l’età media dei presidenti (61,5 anni) era superiore a quella generale, mentre quella dei CEO (48,7 anni) era decisamente inferiore, grazie soprattutto alla presenza nel comparto di Matteo Arpe, all’epoca appena 39enne. Analogamente, nel settore dei servizi e dell’energia, l’età media dei presidenti era pari a 58,7 anni, mentre i CEO erano allineati alla media generale con un dato pari a 52,7 anni. Infine, nel comparto industriale, l’età media dei presidenti era di 63 anni, mentre quella degli amministratori delegati di 54,9. A distanza di oltre 15 anni, l’età media dei presidenti delle società del FTSE Mib è salita a 62,5 anni, mentre quella dei CEO è cresciuta a 56,3 anni, dato in linea con i trend internazionali: secondo lo studio “Global Route to the Top 2019”*, infatti, l’età media degli amministratori delegati nei principali sedici Paesi internazionali è di 56 anni. Nel comparto dei servizi e delle utility l’età media dei presidenti è cresciuta a 65,9 anni e quella degli amministratori delegati a 56,6. Nel mondo finanziario, a inizio 2020, l’età media dei CEO è in aumento a 54,4 anni ed è in crescita anche l’età media dei presidenti, attestatasi a 62,9 anni. Nel settore industriale e dei prodotti, l’età media degli amministratori delegati risulta in salita a 57,7 anni, mentre quella dei presidenti mostra una riduzione a 58,9 anni. “L’innalzamento dell’età media dei vertici aziendali è un trend che si riscontra a livello internazionale e riflette il consolidamento di esperienza dei top manager e l’allungamento dei periodi al vertice, che a livello internazionale è pari a 6 anni”, ha commentato Paolo Boccardelli, Direttore della Luiss Business School. “Il punto di attenzione è rappresentato dalla necessità di pensare al prossimo ricambio generazionale e per questo è necessario investire nella formazione della classe dirigente del futuro con l’obiettivo di aiutare i manager a cogliere le sfide della trasformazione digitale e della globalizzazione. In un mondo del lavoro in profonda trasformazione, inoltre, risulta fondamentale che i manager sappiano colmare il gap che li separa dalle nuove generazioni, che pensano e agiscono secondo schemi e modelli differenti rispetto al passato”. Merita di essere evidenziato come il trend di aumento dell’età media sia risultato costante in tutto il periodo considerato dall’analisi di Luiss Business School. Guardando ai soli amministratori delegati delle società del FTSE Mib, infatti, l’età media generale è cresciuta dai 52,6 anni del 2003 a 54,2 anni nel 2006, 55,1 anni nel 2009, 55,4 anni nel 2012, si è mantenuta a 55 anni nel 2015 per poi ricrescere al dato di 56,3 anni di inizio 2020. Dall’analisi dei dati emerge inoltre che, alla data di aprile 2020, non vi sono amministratori delegati “under 40” all’interno del FTSE Mib (erano tre nel 2003) e che, nel complesso, sono 6 gli “under 50”; di converso, vi è un caso di amministratore delegato “over 70”. Fra i presidenti, invece, vi sono due “over 80” e dieci “over 70”, a fronte di nessun “under 40”.   Dal punto di vista della “gender diversity”, nonostante le iniziative legislative messe in atto che hanno portato a un ampliamento del numero di donne nei consigli di amministrazione, la fotografia è solo leggermente mutata rispetto al 2003, quando nessuna donna sedeva sulla poltrona di CEO: nel 2019 si registra una sola donna CEO, Micaela Le Divelec Lemmi di Salvatore Ferragamo. Diverso il caso per il ruolo di presidente, dove, a fronte di nessuna evenienza registrata nel 2013, nel 2019 erano invece otto le donne a ricoprire questa carica, con una età media di 61,6 anni. RASSEGNA STAMPA  Corriere della Sera, Ad delle aziende quotate: nessun under 40, solo una donna. L’età media? 56,3 anni, di Giuliana Ferraino, 18 aprile 2020 Forbes.it, Top manager al vertice sempre più tardi, studio Luiss, 19 aprile 2020 Business People, Borsa: giovani manager al comando? In Italia una chimera, 20 aprile 2020 20/04/2020 

04 Febbraio 2020

Il futuro delle professioni nel settore dell’energia sarà sempre più digitale e sostenibile

Il mercato del lavoro italiano non riesce a soddisfare la domanda di profili innovativi che arriva dal comparto energetico. Tra le figure emergenti spiccano Data Scientist e Data Analyst: sono i risultati emersi dalla prima indagine condotta da Luiss Business School per Manpowergroup sull’evoluzione delle competenze nelle imprese energy in Italia    Data Scientist e Data Analyst sono le due professioni emergenti del settore energetico. Social intelligence, circular economy e social media managing fra le competenze su cui le aziende puntano di più. Sono i risultati della ricerca “Traiettorie evolutive e competenze per le imprese Energy” di Luiss Business School e Manpower Group.Il Rapporto è il risultato di un Progetto di ricerca a cui hanno contribuito CEO e HR Director di 11 fra le maggiori aziende che operano nel comparto dell’Energia in Italia. Partendo dai principali trend del settore, sono stati analizzati i cambiamenti soprattutto in termini di strategie e di business model e l’impatto sull’organizzazione e sulle persone, in termini di processi, ruoli, cultura, mindsets, skills e professioni. Le competenze digitali nel settore energia Dall’analisi emerge che le competenze digitali sono diventate fondamentali per le aziende che operano nel settore dell’Energia, insieme alla necessità di sviluppare la cosiddetta “transdisciplinarità”[1], che si integra con il concetto di flessibilità, divenuto chiave per le organizzazioni, le quali lavorano alla costruzione di team agili e di contesti dinamici in cui le singole funzioni non siano isolate.  Dalle interviste sono emerse le seguenti nuove competenze soft e tecniche, che le aziende auspicano di sviluppare, o reclutare, nel futuro: COMPETENZE SOFT COMPETENZE TECNICHE Competenze digitali generali Competenze gestionali Interdisciplinarietà Social intelligence Design mindset Comunicazione digitale e social media Innovazione Imprenditorialità Gestione sistemi complessi Smart Working Apertura a contesti internazionali Analisi e gestione dei dati Intelligenza artificiale Computational thinking Competenze tecniche-economiche trasversali Market intelligence Economia di gestione delle risorse Efficienza energetica Sharing economy Circular economy Cybersecurity Robotica Rispetto alle competenze da acquisire sul mercato, quelle che emergano dall’analisi sono: Skill di economia circolare Data analyst/scientist Technology management Intelligenza artificiale Robotica Energy management Social media managing Dalla ricerca emerge inoltre che i mestieri e le professioni emergenti segnalate nel corso delle interviste condotte sono state: Data Scientist e Data Analyst, seguiti a distanza da Data Architect, Data manager, Esperti di open innovation, Innovation manager, IOT manager, Digital Marketing, UX designer, Scrum master, Esperti di marketing di prodotto, Ingegneri con preparazione digitale, Ingegneri della manutenzione predittiva delle reti e degli impianti, Esperti in ambito ICT e TLC, Esperti di connettività (considerato il tema della trasmissione dei dati e delle infrastrutture) che spesso includono cavi di fibra ottica, Operai specializzati nell’idrico e nell’elettrico, Esperti per la gestione di cantieri internazionali, Economisti con background in ambito energia, Middle manager, Ingegneri idraulici, Chimici, Geologi. In linea generale, alcune aziende affermano di assumere annualmente nuovo personale, inclusi soggetti giovani, riscontrando una maggiore difficoltà nel trovare le figure professionali legate al digitale rispetto alle figure “classiche” (es. ingegneri idraulici, chimici, geologi). Inoltre, alcune aziende acquisiscono dall’esterno anche i top manager, con un livello di anzianità di queste figure che rimane al di sotto di 3 anni di lavoro. Per alcune di queste nuove competenze, l’acquisizione di nuove figure dal mercato non risulta essere l’unica opzione, con le aziende che si sono focalizzate anche sul re-skilling e sull’up skilling del personale a disposizione, riqualificandolo. Inoltre, vi sono casi in cui è stata effettuata un’attività di in-sourcing di personale esterno (es. per i ruoli riguardanti la gestione di pratiche di backoffice, call center e customer care). L’impatto più significativo dei cambiamenti e delle direzioni strategiche su ruoli, mestieri, professioni e competenze è la rivisitazione dei ruoli nell’ottica agile, di cui risentono soprattutto i ruoli manageriali, che vedono potenzialmente modificata la numerosità e le opportunità di carriera e quindi di motivazione, rendendo potenzialmente critica la sostenibilità della performance aziendale nel tempo. Per quanto riguarda i ruoli non manageriali, si è raggruppata l’analisi in tre macro-gruppi: staff: creare un linguaggio comune per una maggior comprensione del business in trasformazione e dall’altra la necessità di un loro efficientamento; tecnici: dall’uso delle nuove tecnologie digitali e dall’analisi dei big data, finalizzati, ad esempio, alla manutenzione di apparati e reti di tipo predittiva grazie ai dati provenienti dalle varie sensoristiche di monitoraggio in uso nelle reti, infrastrutture e impianti commerciali: il digital marketing e la data science sono i temi centrali di impatto   SCENARIO  Il settore dell’energia è centrale nello sviluppo mondiale. È un sistema che pone davanti a numerose scelte dovute alla complessità di gestione della domanda e dell’offerta, alle sfide tecniche ed innovative ed alla forte attenzione alla dimensione sociale ed ambientale: Entro il 2050, 2,5 miliardi di persone usciranno dallo stato di povertà, soprattutto alla luce della crescita dei paesi emergenti. Sul fronte dell’energia ciò porterà ad una crescita di circa 1/3 della domanda globale, specialmente in economie a rapida crescita ed urbanizzazione, come Cina ed India. Questo aumento sarebbe circa doppio se non fosse per l’effetto dell’efficienza energetica e della sostenibilità Il settore power, con la crescente elettrificazione, assorbirà il 70% dell’aumento dell’energia primaria. È in atto una modifica del mix delle fonti, che per il 2040 saranno molto diversificate, approssimabile con la regola del “25%”: un quarto carbone, un quarto oil, un quarto gas e il restante 25% suddiviso tra nucleare e rinnovabili L'uso del carbone è aumentato nel 2017 dopo due anni di declino, ma le decisioni di investimento finali nelle nuove centrali elettriche a carbone sono state ben al di sotto del livello osservato negli ultimi anni e il flusso di nuovi progetti rallenterà dopo il 2020. Tuttavia, è ancora troppo presto per contare il carbone fuori dal mix energetico globale: l'età media di una centrale a carbone in Asia è inferiore a 15 anni, rispetto a circa 40 anni nelle economie avanzate. Le fonti fossili risentono di rischi di accessibilità e affidabilità: mentre i costi di solare, fotovoltaico ed eolico continuano a scendere, i prezzi del petrolio nel 2018 (e per la prima volta dopo 4 anni) sono saliti sopra $80/barile Saranno proprio le rinnovabili, che già attirano 2/3 degli investimenti mondiali a coprire circa il 40% dell’aumento dell’energia primaria. Anche se, pur offrendo basse emissioni a costi contenuti, creano ulteriori requisiti per il funzionamento affidabile dei sistemi di alimentazione È in atto una trasformazione nel fulcro geografico del settore: nel 2000, l'Europa e il Nord America rappresentavano oltre il 40% della domanda energetica globale, e le economie in via di sviluppo in Asia circa il 20%; le aziende Europee erano prime al mondo per capacità installata. Entro il 2040 la situazione sarà invertita, e già ora sei delle prime dieci aziende sono utility cinesi La sostenibilità sarà un elemento chiave, con obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 che richiederanno una vera rottura con i trend del passato. Gli stati membri dell'Unione Europea si sono impegnati collettivamente a ridurre le emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020 e del 40% entro il 2030. Al fine di limitare il riscaldamento globale a 2° C entro il 2040, dovranno essere investiti circa $ 900 miliardi all'anno in impianti di energia rinnovabile e relative reti di trasmissione e distribuzione e $300 miliardi all'anno in energia pulita Il settore registra un elevato livello di disruption tecnologica: entro il 2025, la digitalizzazione consentirà di risparmiare 625 milioni di tonnellate di emissioni CO2 a livello globale. Inoltre, ulteriori disruption sono previste nel breve termine, poiché le infrastrutture divengono più dinamiche, responsive ed interconnesse, a vantaggio anche dei modelli distribuiti e basati sulle comunità di fornitura. I consumatori sono più connessi, e questo comporta la necessità di un approccio di omni-canalità: le aziende garantiscono al cliente un’esperienza integrata e continua, attraverso tutti i touch-point.   METODOLOGIA DI RICERCA  Il progetto di ricerca ha previsto diverse attività, che hanno visto coinvolti docenti e ricercatori della Luiss Business School e CEO, HR Director del settore. La roadmap di progetto si è articolata in 4 fasi distinte, che hanno visto l’avvio di progetto con una analisi desk di alcuni principali report internazionali del settore Energy, che è poi stata integrata con un approfondito round di interviste con esperti di settore e company rappresentative del panel di aziende coinvolte. La ricerca, di natura qualitativa, ha quindi portato alla redazione del presente report dettagliato. Il team ha identificato un panel di 11 aziende operanti nel settore Energy, diverse per scope nella filiera, attività e focus di mercato (settori: Regulated Utilities, International energy players, Oil downstream players, Multi-Utilities e GenCo. Insieme, le imprese sono anche rappresentative delle diverse filiere, ovvero Gas, Power e Oil). Panel Aziende: A2A, ACEA, ENEL, HERA, IREN, ITALGAS, Q8, SARAS, SNAM, TERNA, TIRRENO POWER. Grazie all’eterogeneità del panel, il team ha potuto ampliare l’analisi di scenario e dei modelli di business, delineando un quadro integrale delle dinamiche evolutive e dei fabbisogni di settore. Il team, con la presenza di Manpower, ha intervistato gli interlocutori presso le 11 aziende del panel. Ogni intervista ha avuto una durata media di 60 minuti, seguendo la traccia semi-strutturata condivisa con gli intervistati una settimana prima dell’incontro. [1] Secondo la definizione dell’Unesco, la transdisciplinarità è quello spazio intellettuale dove le connessioni tra diversi argomenti isolati possono essere esplorate e svelate. SCARICA LA RICERCA RASSEGNA STAMPA la Repubblica Affari & Finanza, Nelle utility meno manager e spazio ai "data scientist"  la Repubblica Affari & Finanza, Energia, mancano gli specialisti digitali: aziende in affanno nella caccia ai talenti Corriere della Sera, Lo studio di Luiss e Manpower Il Sole 24 Ore, Energia, il futuro professioni sempre più sostenibile e digitale Ansa, Energia: le professioni del futuro digitali e green Affari Italiani, Energia: Iren, Acea e Q8 puntano su digitale e competenze. Focus sostenibilità CorriereComunicazioni, Energy a caccia di digital skill: data analyst e scientist le più richieste Tiscali News, Lavoro, Manpower: dal digitale una rivoluzione delle competenze GALLERY

30 Ottobre 2019

Turismo sostenibile: il progetto europeo Luiss Business School per le PMI

Luiss Business School ha rappresentato l’Italia nel progetto europeo di ricerca e formazione, Sustain-T – Sustainable Tourism through Networking and Collaboration, rivolto ad imprenditori, rappresentanti delle associazioni di categoria, esperti e personale delle piccole e medie imprese che operano nel settore turistico, per sensibilizzare e favorire l’adozione di pratiche sostenibili. I fabbisogni manageriali delle piccole e medie imprese per un turismo sostenibile Insieme ai partner Portuguese Tourism Confederation – PT e Chamber of Commerce and Industry Csongrád County – HU, Luiss Bussiness School ha svolto un’attività di ricerca basata sulla predisposizione di una survey, volta a raccogliere un consistente volume di informazioni sui fabbisogni manageriali e gestionali delle PMI nel settore del turismo.   Questa indagine ad ampio spettro è stata articolata in modo da identificare il grado di consapevolezza e conformità delle PMI ai principi internazionali del turismo sostenibile; le sfide che gli imprenditori devono affrontare per rendere imprese e servizi più sostenibili dal punto di vista ambientale; infine, i gap formativi e di competenze manageriali per il possibile miglioramento della produttività e sostenibilità di tali organizzazioni. L’indagine ha evidenziato che il fabbisogno di maggiore sostenibilità nelle imprese operanti nel settore turistico è percepito soprattutto rispetto all’impatto in termini di reputazione (55% del campione analizzato), di soddisfazione del cliente (60%) e di una relazione più virtuosa con le realtà locali in cui le PMI sono inserite (45%). La ricerca ha permesso di individuare che tra i fattori che maggiormente ostacolano la realizzazione di pratiche sostenibili, la mancanza di un quadro informativo chiaro e sistematizzato è centrale (72%). Un gap che ha messo in luce come il fabbisogno di conoscenze e competenze manageriali sul tema possa essere efficacemente colmato attraverso soluzioni e-Learning, che il 68% delle imprese intervistate ritiene idoneo per sé e i propri collaboratori. Non secondaria per la realizzazione di sistemi turistici sostenibili, l’esigenza di maggiori iniziative di networking e collaborazioni tra imprese. Un manuale operativo per un turismo sostenibile   L’esito di questa survey ha dato luogo alla produzione di un manuale operativo e di specifiche linee guida per supportare le PMI che operano in ambito turistico, nella realizzazione di business sostenibili. Sono stati quindi predisposti 6 moduli formativi con i relativi questionari di autovalutazione in 6 lingue (EN, IT, ES, HU, PT, BG), tutti disponibili sulla piattaforma e-learning del progetto in modalità open-access, sui temi di gestione sostenibile nel settore del turismo; benefici socio-economici del turismo sostenibile per le comunità locali; benefici del turismo sostenibile per il patrimonio culturale; turismo sostenibile che dà benefici all'ambiente; benefici della collaborazione e del fare rete per le imprese turistiche; innovazione e competitività nel settore del turismo sostenibile. Scopri il progetto  30/10/2019   

29 Dicembre 2018

Dalla digital transformation all’open innovation: le strategie del mondo Pharma

Nuove traiettorie evolutive, scelte strategiche e fabbisogni professionali Una ricerca di Paolo Boccardelli, Direttore LUISS Business School, Federica Brunetta, Assistant Professor LUISS Guido Carli University - Department of Business and Management, Luca Magni, Adjunct Professor LUISS Business School, Emanuele Mangiacotti, Adjunct Professor LUISS Business School.   Il progetto è stato realizzato in collaborazione con Gi Group: per condurre la ricerca, gli autori si sono interfacciati con gli stakeholder del settore in modalità partecipative differenziate, coinvolgendo docenti e ricercatori della LUISS Business School, manager di Gi Group, nonché CEO e HR Director del settore, per garantire un dialogo e una analisi delle diverse realtà che operano nel comparto. Il lavoro di ricerca è stato mirato a valutare gli impatti dei trend nel settore Pharma sulle organizzazioni delle aziende farmaceutiche, con un focus specifico su quali competenze siano necessarie per affrontare i diversi cambiamenti. In particolare, l’obiettivo degli autori è stato di indagare i potenziali impatti sulle competenze necessarie alle organizzazioni del settore pharma, in particolare rispetto ai processi di digitalizzazione. LA FILIERA DELL’INDUSTRIA farmaceutica sta vivendo un’evoluzione sempre più rapida e continua, caratterizzata da una crescente complessità del suo variegato ecosistema, fatto di centri di ricerca universitari, medici, legislatori, sistemi regolatori, sanità pubblica e privata, pazienti, e altro ancora. Inoltre sia la filiera, che l’ecosistema stesso sono sempre più esposti e profondamente impattati da fenomeni trasversali: uno per tutti è quello della digital transformation. Un primo effetto di tutto ciò è l’aumento del rischio d’impresa, a cui le aziende farmaceutiche rispondono con proprie strategie, frutto e riferimento della ricerca, della tecnologia, dei vincoli regolatori e di mercato. In questo frangente, tra le tante iniziative strategiche, l’open innovation ha trovato uno spazio importante, sia come strumento di valorizzazione della ricerca che del know-how: le aziende collaborano con i clienti e fornitori nello sviluppo di nuovi prodotti e nuove tecnologie, mettendo a disposizione di altri player di mercato una serie di informazioni con l’obiettivo di favorire quell’innovazione che porta a una migliore qualità. Negli ultimi due decenni l’invecchiamento della popolazione nei Paesi più ricchi, la crescita della classe media nei Paesi emergenti e lo spettro conseguente di una spesa sanitaria fuori controllo hanno spinto politici, media e opinione pubblica a demonizzare aziende e operatori del comparto, spingendo verso modelli di relazione sempre più sofisticati e multidimensionali rispetto a quello tradizionale, incentrato sulle sole due classi d’interlocutori di pazienti e medici. È, quindi, nato e sta trovando sempre maggior applicazione il Modello delle 5P (Patients, Physicians, Public, Payers, Policy Makers), ovvero un modello di lettura e intervento orientato su nuove necessità e nuove opportunità di relazione tra: i pazienti, che sono più informati, responsabilizzati, ma contemporaneamente anche distratti dalle nuove tecnologie; i medici, che continuano a svolgere un importante ruolo di guida/mediazione attraverso le loro diagnosi e prescrizioni, ma che sempre più spesso, contrariamente a quanto avveniva in passato, lavorano come dipendenti per le organizzazioni sanitarie pubbliche o private. Questa nuova organizzazione del lavoro impatta sulla natura del processo decisionale del medico; la società, ovvero le reti sanitarie e della cura integrata, che sono cresciute, così come il numero degli amministratori sanitari attenzionati sui risultati di salute, sull’innovazione medica, sull’utilizzo proprio del sistema e sulle analisi costi-benefici; i contribuenti, che nei Paesi in cui non sono presenti sistemi assicurativi dedicati, operano con un potere assai indiretto e rappresentano una leva determinante solo nel medio-lungo termine. Anche se i contribuenti sono generalmente inelastici quando si tratta di messaggi di marketing, i team di marketing delle grosse realtà industriali del comparto stanno comunque prestando molta attenzione a come il mondo dei contribuenti, sempre più complicato, possa influire sulla redditività commerciale; i politici, con i quali le aziende hanno spesso incontrato difficoltà a interagire, ma con i quali il rapporto è stato sempre e resta essenziale. Il potenziamento delle strutture di Governmental Affairs e Market Access è ormai riconosciuto indispensabile affinché le aziende includano il calendario legislativo come un elemento centrale della propria pianificazione strategica. Digital Transformation Negli ultimi cinque anni il termine “digital transformation” da buzzword è diventata un mantra nel piano strategico di qualsiasi azienda di ogni settore, poiché i vantaggi sia per il mondo della produzione che dei servizi sono molteplici: l’utilizzo di una combinazione di diverse soluzioni tecnologiche porta a maggiore efficienza, miglior operatività̀ e riduzione dei costi. Per gli executive è diventato fondamentale sviluppare la e-leadership; per i lavoratori, invece, sviluppare il mindset e le competenze digitali. Tutti queste trasformazioni di business, industriali, lavorative hanno dato vita alla quarta rivoluzione industriale, nota oramai col nome “Industria 4.0”. Quindi, la digital transformation ha creato opportunità e sfide verso il cambiamento in ogni funzione dell’impresa. Dalle interviste, emerge in particolare la centralità degli HR nle preparare l’ambiente che arriverà tra 5 anni, investendo ad esempio, in figure ad-hoc, come digital accelerator, con un ruolo chiave nel cambiare il mindset dell’azienda, e in nuove competenze, come quelle di Social Media Management, Digital Medicine & Artificial Intelligence, Robotica, Industry 4.0 e Internet of Things, Big Data, Personalized Medicine, di Account Management per la gestione dei gruppi privati in farmacia, di centralizzazione di Gruppi di Acquisto, Virtual & Augmented Reality in Professional Education, tenendo presente. Come ci ricorda un executive, “Il mondo del digitale ci aiuterà a capire di più e anche ad anticipare eventuali dinamiche evolutive delle patologie, riuscire a prevenire e anticipare trattamenti, evitando la cronicità o la gravità”. Open Innovation Con open innovation si fa riferimento alla volontà, da parte delle imprese di settore, di favorire l’innovazione “aperta”, ovvero un modello di innovazione secondo il quale le imprese, per creare più valore e competere meglio sul mercato, ricorrono alla collaborazione con start-up, università, istituti di ricerca, fornitori, inventori, programmatori e altri attori complementari lungo il sistema del valore. Con le parole di uno degli executive: “Il settore farmaceutico in tutto il mondo sta vivendo il secondo tempo di una partita in cui sono cambiate molte cose. Le aziende italiane si devono specializzare oggi su un pezzo della catena del valore e devono cercare connessioni con altri centri di competenza: in questo e per questo l’open innovation diventa un elemento chiave”. Il modello di open innovation rappresenta una deliberata strategia, dal momento che l’impresa beneficia, attraverso la rete aperta, di competenze e asset posseduti dai partner andando ad arricchire la propria base di conoscenze. L’innovazione aperta si è resa necessaria per diversi motivi: la crescente complessità del settore, il dinamismo tecnologico, il conseguente aumento di costi e rischi dei processi di ricerca & sviluppo, il ridotto ciclo di vita dei prodotti. Questo scenario rende il modello tradizionale di “closed innovation” non sufficiente per supportare il vantaggio competitivo, per quanto imprescindibile in alcune fasi della ricerca. La gestione di una strategia di innovazione aperta pone diverse sfide, quali ad esempio la ricerca di un allineamento di obiettivi con i partner, la necessità di trovare un modo efficace di collaborare e un equilibrio tra risorse e conoscenze da condividere con essi. Richiede inoltre anche figure professionali ad-hoc, che sappiano gestire tali criticità e individuare gli strumenti di collaborazione più adatti. Risultati della ricerca Tutte le società intervistate individuano nell’invecchiamento della popolazione, nell’aumento delle patologie croniche che questo inevitabilmente comporta, e nella crescente difficoltà a sostenere economicamente la domanda di assistenza sanitaria, gli elementi di contesto chiave del cambiamento in atto nel settore sanità. Altrettanto alta appare la condivisione circa le direzioni in cui cercare opzioni strategiche di sviluppo e di crescita: la centralità del paziente e dei suoi diritti; la ricerca di economicità di cura e assistenza attraverso la personalizzazione dei processi di diagnosi, terapia e gestione delle patologie; l’uso e la valorizzazione dell’informazione attraverso la raccolta e l’utilizzo finalizzato di dati - sugli aspetti di genomica, di abitudini, di stili di vita - così come lo sviluppo di relazioni con partner più o meno tradizionali quali università, aziende operanti in ambiti tecnologici, finanziari o attivi in altre tipologie di servizi. A fronte della summenzionata visione condivisa del cambiamento, le aziende interpellate riflettono però, comprensibilmente, strategie e tempistiche di esecuzione diverse che sembrano esprimere livelli di attenzione, energia e investimenti diversi. La questione del cambiamento dell’orizzonte competitivo risulta, infatti, molto più vivida e sentita nelle società con gli headquarter (HQ) in Italia, rispetto a quello emerso dalle interviste e nel confronto con le consociate estere, presenti e operanti sul territorio nazionale. In altre parole, possiamo affermare che sebbene tutti gli intervistati siano risultati allineati in termini di visione e lettura del contesto strategico competitivo in cui le loro organizzazioni operano, le consociate locali di aziende con gli HQ all’estero appaiono ancora fortemente focalizzate sul paradigma di business passato, mantenendo un certo timore reverenziale quasi di difesa rispetto a schemi di lavoro e di investimento passati. Questa reverenzialità emerge in particolar modo dal focus che ciascuna di queste società mantiene nelle diverse aree organizzative aziendali, per ognuna delle quali continua a essere confermata, nel tempo, l’attribuzione di priorità e budget necessari a gestire i rapporti più consolidati e tradizionali, piuttosto che a sviluppare e/o ad ampliare le relazioni con nuovi stakeholder. Relativamente alle competenze emergenti, queste possono essere clusterizzate in 4 macro-aree fondamentali: account management, disease management, multiple stakeholders management e open innovation management – macro aree rispetto alle quali il digital mindset appare tagliar trasversalmente molteplici temi di ciascuna e caratterizzare numerose delle soluzioni perseguite. L’evoluzione di competenze specifiche per ogni macro-area esprime cambiamenti di mindset ben caratterizzati, ovvero che puntano a portare le aziende farmaceutiche a guardare: all’account management, per andare oltre i tradizionali vincoli di prezzo e le pratiche di scontistica; al disease management, per superare la prospettiva del prodotto chimico-farmaceutico; al multiple stakeholders management, per allargare l’orizzonte di intervento ed influenza ben oltre i pazienti e i medici; all’open innovation & partnerships management, per perseguire in modo economicamente sostenibile le opportunità di mercato anche oltre i confini, i vincoli ed i mezzi della propria organizzazione. LEGGI LA RICERCA 26/12/2018

17 Dicembre 2018

La filiera dell’elettricità italiana: un’eccellenza internazionale

Tra innovazione, sostenibilità e visione condivisa “La filiera dell’elettricità italiana: un’eccellenza internazionale. Tra innovazione, sostenibilità e visione condivisa” è lo studio del Prof. Matteo Caroli, Associate Dean for Executive Education della LUISS Business School, presentato l'11 dicembre 2018 alla Farnesina. Lo studio racconta l’evoluzione dell’industria elettrica italiana negli ultimi quindici anni, ne evidenzia le eccellenze e indaga i processi alla base dei risultati riportati; individua inoltre le sfide per la transizione energetica dei prossimi anni, dedicando un focus al ruolo cruciale che potrà giocare Elettricità Futura per completare l’integrazione tra termoelettrici e rinnovabili. Dall’inizio di questo secolo, l’industria elettrica italiana ha attraversato una profonda trasformazione industriale e in termini di competitività, per diversi aspetti ancora in atto. Oltre al radicale cambiamento della struttura industriale, conseguente alla liberalizzazione del settore, si è registrata una crescita molto intensa della produzione da fonti rinnovabili, che già nel 2015 è arrivata a coprire il 33,5% dei consumi, per un totale di quasi 110 TWh, anche oltre l’obiettivo dei 99TWh al 2020, fissato dal Piano di Azione Nazionale sulle Energie Rinnovabili. Il cambiamento dell’industria elettrica nella direzione delle rinnovabili sta in effetti accadendo a livello mondiale dal 2007, quando la quota di elettricità mondiale generata da fonti rinnovabili era al 5%; è arrivata all’11% nel 2016 e ha superato il 12% nel 2017. Del resto, lo sviluppo di energia green è un pilastro delle politiche industriali e ambientali dell’Unione Europea almeno dall’inizio del secolo e si è ulteriormente rafforzato in questi ultimi anni. Il “2030 Climate and Energy Framework”, emanato nel 2014, prevede infatti obiettivi molto ambiziosi da conseguire entro il 2030: riduzione di almeno il 40% delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990; incremento dell’efficienza energetica di almeno il 27%; raggiungimento di un livello di interconnessione pari al 15% della capacità elettrica installata. A questo intervento è seguito il pacchetto di proposte legislative “Clean Energy for All Europeans”, emanato nel novembre 2016 dalla Commissione Europea, finalizzato a fornire un chiaro riferimento istituzionale per la transizione verso l’energia pulita e a compiere un passo significativo verso la creazione dell’Unione Energetica Europea e di un mercato unico europeo dell’energia. L’industria elettrica italiana ai primi posti del sistema delle rinnovabili Le imprese italiane hanno saputo cogliere le opportunità offerte da questi cambiamenti diventando leader nella produzione di elettricità da rinnovabili. Già nel 2015, la percentuale di energia rinnovabile sul totale del consumo finale era arrivata sopra al 17%, raggiungendo il target fissato dall’Unione Europea per il 2020. Nel 2016, l’Italia era al sesto posto al mondo e seconda in Europa per capacità installata di generazione da fonte rinnovabile (escluso idroelettrico), con un valore di circa 34 GW. La capacità complessiva, considerato anche l’idroelettrico, sale a circa 52GW. L’eccellenza italiana nelle rinnovabili è determinata anche dalla notevole diversificazione delle fonti utilizzate, risultato di una specie di stratificazione avvenuta nel tempo. L’Italia ha un mix produttivo eccellente dal punto di vista ambientale, non solo per l’elevata presenza e diversificazione di rinnovabili, ma anche perché la seconda fonte più utilizzata è il gas, utilizzato in centrali realizzate in tempi recenti e tecnologicamente avanzate; del resto, già all’inizio di questo secolo iniziò la progressiva sostituzione degli impianti a olio, appunto, con quelli a gas. I dati del GSE evidenziano che nel 2016 oltre il 38% della produzione è da fonti rinnovabili, poco meno dello stesso valore da gas, il carbone segue con il 15%; le altre fonti fossili sono del tutto marginali. Nell’ultimo biennio, si è verificato un “fuel switching” virtuoso nell’ambito delle fonti tradizionali, con la produzione a carbone in costante diminuzione.  La rapida diffusione dei consumi di elettricità prodotta da fonti rinnovabili è stata possibile anche grazie all’eccellenza della rete distributiva esistente nel paese, che ha saputo garantire la massima efficienza nella connessione degli utenti finali. La cifra fortemente green del settore elettrico italiano sta anche nella sua efficienza complessiva. Secondo il “2018 International Energy Efficiency Scoreboard”, pubblicato ogni due anni dall’American Council for Energy Efficient Economy, l’Italia (insieme alla Germania) è al primo posto per efficienza energetica complessiva, tra i 25 paesi nel mondo maggiori consumatori di energia. Le sfide future Per gestire efficacemente il nuovo grande fabbisogno di FER, è essenziale fare in modo che il mercato superi la logica di breve termine propria di questi ultimi decenni, a favore di un approccio focalizzato sul lungo periodo. In questo senso, è ampiamente condivisa la necessità che anche nel nostro paese si definiscano chiaramente le condizioni di interesse generale rilevanti per i “purchase power agreements” (PPA), così da eliminare fattori di incertezza che limitino l’efficacia di tali contratti nella loro funzione di stabilizzazione dei flussi di cassa dei produttori e quindi di bancabilità dei nuovi investimenti. Occorre anche favorire un ulteriore salto tecnologico sul fronte dei sistemi di accumulo, le smart grid e la digitalizzazione dei piccoli impianti per introdurre efficaci meccanismi di controllo a distanza. La localizzazione degli impianti sul territorio è un altro tema cruciale, perché molti governi e stakeholder locali sono sensibili al consumo del suolo e al mantenimento della qualità del paesaggio esteso, e le produzioni da fonti rinnovabili sono caratterizzate da bassa densità di energia prodotta per unità di superfice necessaria. Se quindi da un lato è chiaro agli stessi produttori termoelettrici che tutto lo sviluppo futuro dell’industria si gioca su investimenti e innovazione tecnologica nella generazione da rinnovabili e nell’efficienza energetica, dall’altro, è altrettanto chiaro ai produttori da rinnovabili che la produzione termoelettrica avrà comunque un ruolo irrinunciabile ancora a lungo, per garantire la necessaria sicurezza al sistema elettrico nel suo insieme, avendo sviluppato tecnologie che la rendono comunque efficace anche dal punto di vista ambientale. È necessario inoltre accompagnare l’innovazione del mercato, intervenendo da un lato su un problema e dall’altro su un’opportunità. Il primo attiene ai rischi per il sistema derivanti dall’eccessiva frammentazione di una parte del mercato retail; la seconda riguarda le aspettative di sviluppo della partecipazione della domanda ai mercati, il cosiddetto “market response”, con i vantaggi economici e di stabilizzazione della rete che ne derivano. Anche nel segmento retail occorre dunque trovare il giusto equilibrio tra abbattimento delle barriere all’entrata e mantenimento dell’affidabilità complessiva del sistema elettrico. L’opportunità su cui si dovrà lavorare è, invece, la partecipazione della domanda ai mercati: “demand response”. Il nostro paese ha caratteristiche della domanda e di penetrazione FER che la rendono un mercato potenzialmente interessante per lo sviluppo del “demand response” e, affinchè questa opportunità sia colta anche in Italia, è essenziale creare le condizioni a partire da interventi sul quadro regolatorio. LEGGI LO STUDIO 17/12/2018

26 Maggio 2017

Come i Millennials valutano le aziende: la ricerca LUISS Business School promossa dalla Fondazione Coca-Cola HBC Italia

  La ricerca “Le dinamiche di selezione, valutazione, scelta degli studenti universitari verso potenziali employer” realizzata dalla LUISS Business School e promossa da Fondazione Coca-Cola HBC Italia, ha voluto individuare criteri che utilizzano i Millennials nella selezione degli employer a cui presentare la propria candidatura e avviare un percorso di carriera. Dalla ricerca – che ha visto la partecipazione di oltre 900 studenti universitari di un’età compresa tra i 18 e i 29 anni – tra i principali fattori determinanti sono emersi: emotional appeal, ossia l’atteggiamento emotivo verso l’impresa; workplace environment, in termini l’ambiente lavorativo offerto ai dipendenti,  tutela del benessere, programmi di formazione e di carriera proposti; performance finanziaria come valutazione della stabilità finanziaria con particolare riferimento alle prospettive di crescita dell’azienda, davanti a componenti più concrete come il livello retributivo offerto e la qualità dei prodotti. «I ragazzi coinvolti nello studio considerano l’emotional appeal il fattore più importante nella scala di valutazione, inteso come capacità di ispirare fiducia e ammirazione – afferma Luca Pirolo, Direttore del LUISS Creative Business Center della LUISS Business School – a testimonianza della ricerca di un sistema valoriale a cui aderire, prima ancora di una condizione economica ottimale». Non mancano inoltre il  valore percepito attraverso l’esame dei prodotti e/o servizi offerti; vision e leadership; social responsibility ossia l’impegno di carattere sociale, etico e ambientale da parte dell’azienda. «Il rapporto tra imprese e giovani generazioni appare oggi prioritario – ha dichiarato Giangiacomo Pierini, Vicepresidente della Fondazione e Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione di Coca-Cola HBC Italia – e questo studio fornisce un supporto alle aziende per comprendere meglio quali contenuti risultano più interessanti, con quali strumenti comunicarli e come supportare i giovani nell’ingresso del mondo del lavoro. I temi emersi sono parte integrante del progetto #YouthEmpowered, avviato da Coca-Cola HBC Italia per fornire ai giovani una preparazione al mercato del lavoro. L’iniziativa, oltre a moduli formativi interattivi online, prevede incontri con le persone dell’azienda, che possono testimoniare direttamente i valori e l’ambiente lavorativo in cui operano ogni giorno, elementi che secondo la ricerca svolta da LUISS Business School risultano essere di primaria importanza per gli studenti». Gallery 26/05/2017