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12 Dicembre 2023

Osservatorio Auto e Mobilità Luiss Business School: le dinamiche competitive delle auto cinesi in Europa e Italia

La Cina è oggi il primo produttore di autovetture al mondo ed il secondo esportatore con 2,45 milioni di unità nei primi 8 mesi del 2023 (ad un soffio dai 2,48 milioni del Giappone) Export globale più che triplicato in tre anni, con una crescita del 233% Export nel biennio 2020 - 2022 in UE +432% e +640% in Italia L’Osservatorio Auto e Mobilità di Luiss Business School ha presentato i risultati della ricerca “L’auto cinese in Italia: Conoscere per Decidere”. Oggetto dell’indagine è la dinamica di insediamento dei produttori di automobili cinesi nel mercato europeo, un fenomeno che ha visto una fortissima accelerazione negli ultimi anni e che appare, nella sua evoluzione, senza precedenti. L’industria automobilistica cinese nel Vecchio Continente si sviluppa in un periodo di transizione per l’Europa, impegnata nel passaggio alle zero emissioni del 2035. In questo contesto la Cina si presenta forte di un vantaggio strategico nell’elettrico e di una posizione da leader nel settore delle batterie, grazie a investimenti effettuati con parecchi anni di anticipo rispetto alle case europee. Inoltre, è la prima volta che l’Europa si trova ad affrontare il debutto di un attore che rappresenta il primo mercato e il maggiore produttore al mondo di veicoli. I numeri della Cina nel mondo: esportazioni triplicate in tre anni Oggi la Cina è prossima a diventare il principale esportatore al mondo di autovetture: nei primi 8 mesi del 2023 ha strappato il secondo posto alla Germania grazie a 2,45 milioni di unità esportate, posizionandosi di poco al di sotto dei 2,48 milioni di unità del Giappone. In tre anni, infatti, l’export cinese è più che triplicato, con una crescita del 233%, permettendo alla Cina di colmare il gap con le principali industrie automobilistiche. Eppure, nel 2020 le vetture che lasciavano il “Dragone” erano appena 760.000, mentre quelle esportate da Germania e Giappone rispettivamente 2,6 e 3,4 milioni. La situazione in Europa: nel 2022 la Cina è il primo esportatore di vetture nell’UE Nel 2022 le vetture realizzate in Cina e immatricolate in Europa[1] sono state 455.400 (462.600 nei primi tre trimestri 2023), per una quota di mercato complessiva del 4% (4,8% nel 2023). Circa il 20% delle esportazioni cinesi di auto (e il 58% delle vetture elettriche) viene assorbito dal Vecchio Continente. Dal 2020 al 2022 il valore dell’import di auto cinesi nell’Unione Europea è aumentato di oltre 5 volte (+432%), raggiungendo i 9,37 miliardi di euro. Ciò ha permesso alla Cina di diventare, nel 2022, il primo esportatore di vetture nell’Ue, superando Giappone, Corea del Sud, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il caso Italia: import superiore al miliardo di euro nel 2023 Nel 2022 le vetture realizzate in Cina e immatricolate in Italia sono state 39.000 (pari a uno share del 3%), mentre nei primi tre trimestri del 2023 sono salite a 59.400, per uno share del 5%[2]. Per il nostro Paese i tassi di incremento delle importazioni dalla Cina sono superiori a quanto si registra per il Vecchio Continente: dal 2020 al 2022 l’import è aumentato di oltre 7 volte (+640%), raggiungendo, lo scorso anno, i 368,6 milioni di euro. Anche il 2023 ha visto una crescita poderosa dell’import cinese in Italia: nei primi 7 mesi è stato infatti superato il totale del 2022, arrivando a 622,5 milioni, con un aumento di quasi 4 volte (+268%) rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sulla base di questi numeri si prevede che, al termine del 2023, il valore dell’import di auto dalla Cina possa superare, per la prima volta, il miliardo di euro. Gli effetti di questo aumento hanno avuto delle importanti ripercussioni sul saldo commerciale del nostro Paese. Nei primi 7 mesi del 2023, infatti, si rileva un’inversione di tendenza nella bilancia commerciale che, per la prima volta, finisce in campo negativo: il disavanzo è stato di 346,7 milioni di euro, anche a causa di un export verso il paese asiatico diminuito del 47,6% (per un totale di 275,8 milioni). La Cina e l’elettrico: il 70% delle esportazioni di auto nel mondo non è elettrico Per quanto riguarda le alimentazioni, a livello globale oltre il 70% delle esportazioni di auto cinesi è rappresentato da tradizionali vetture endotermiche. Nel complesso i New energy vehicles (Nev, ovvero elettriche e ibride plug-in) hanno costituito solo il 28,6% dell’export cinese dall’inizio dell’anno in termini di volumi. Se guardiamo all’Europa, tuttavia, l’ordine di grandezza è invertito: nei primi tre trimestri del 2023 le elettriche assorbono in termini monetari l’82,4% dell’export di auto cinesi nel Vecchio Continente e il 70,8% in termini di immatricolazioni. Parliamo di 327.400 vetture circa, le quali rappresentano il 22,9% di tutte le elettriche immatricolate in Europa nei primi 9 mesi dell’anno. In Italia, invece, le auto con motore puramente endotermico costituiscono il 77% delle immatricolazioni di vetture cinesi - corrispondente a 45.700 unità - e il 76% dell’export dal paese asiatico in termini monetari, a conferma di un grado di penetrazione dell’elettrico inferiore alla media europea. Nel nostro Paese, infatti, le Bev – Battery Electric Vehicle - hanno una quota di mercato del 3,9% a fronte del 14,7% rilevato in Europa. Nei primi tre trimestri del 2023 le elettriche hanno assorbito il 20% dell’export di auto cinesi in termini monetari e il 16% in termini di immatricolazioni. Le elettriche cinesi vendute sono state 9.400 circa, le quali rappresentano il 20,4% di tutte le Bev immatricolate in Italia. Strategie e canali commerciali diversificati Per guadagnare peso in Europa i produttori cinesi stanno utilizzando tre canali principali (più un quarto specifico del mercato italiano), che corrispondono ad altrettante tipologie di attori e di prodotti presenti sul nostro mercato: - Sviluppo e internazionalizzazione dei brand “autoctoni” È la componente più visibile della penetrazione cinese, che porta in Europa marchi giovani, poco conosciuti e in genere specializzati nell’elettrico. Dal 2021 hanno debuttato in Europa 19 marchi cinesi, che diventeranno 23 nel 2024 (6 di questi anche in Italia, che l’anno prossimo arriverà a contare 11 brand del paese asiatico). Questi marchi, tuttavia, costituiscono solo la “punta dell’iceberg”, dal momento che il loro percorso in Europa è agli albori e rappresentano ancora una parte minoritaria di tutte le immatricolazioni di auto made in China (il 2,5% nel 2022, per un totale di 11.200 vetture complessive; il 4,3% nei primi tre trimestri del 2023, pari a 19.800 unità). Al momento il loro share di mercato è limitato, sia in Europa che in Italia, dove i brand cinesi hanno venduto complessivamente 145 unità nel 2022 e 796 vetture da gennaio a settembre 2023 (di cui 110 elettriche). - Attrazione degli investimenti esteri, la Cina come Export Hub Il Governo di Pechino, grazie alla forza della propria competitività industriale, punta ad essere un export hub che induce costruttori stranieri a realizzare in Cina vetture da esportare poi sui mercati sviluppati. Il successo di questa strategia è visibile nella commercializzazione in Europa di numerose vetture realizzate in Cina da Brand europei, americani e giapponesi. Oggi questa componente rappresenta quella più rilevante in termini di volumi: la maggior parte delle auto made in China immatricolate in Europa (il 54,4% nel 2022 e il 46,4% nei primi tre trimestri 2023) ha un marchio non cinese. Il modello prodotto in Cina più venduto d’Europa, con 63.820 unità immatricolate nei primi tre trimestri del 2023, ha marchio americano. Si tratta di un cambiamento radicale di paradigma: fino a poco tempo fa i costruttori tradizionali realizzavano nel paese asiatico vetture per il mercato locale, in genere con una tecnologia inferiore rispetto ai modelli europei. Oggi, al contrario, le case occidentali realizzano accordi e partnership per produrre vetture elettriche all’avanguardia, da esportare al di fuori della Cina. - Acquisizioni di costruttori e marchi occidentali I player cinesi hanno avuto successo nell’acquisire e rilanciare importanti aziende europee. Alcuni marchi interessati dai nuovi assetti proprietari sono stati oggetto di strategie più conservative, continuando ad avere un’immagine e una capacità produttiva europea (pur con un coinvolgimento crescente della manifattura cinese per i nuovi modelli elettrici). In altri casi, invece, brand europei per storia o immagine, sono divenuti cinesi per quanto riguarda le tecnologie e la localizzazione della produzione. - La specificità italiana All’interno del quadro appena delineato, vi è poi una quarta modalità, che, per ora, è presente nel nostro Paese. Un’azienda italiana, attraverso partnership strategiche con gruppi automobilistici cinesi, produce e commercializza su licenza dei modelli che vengono importati dalla Cina in maniera semi-finita, per poi essere ultimati e personalizzati all’interno dello stabilimento italiano. Con questa formula, il gruppo, che oggi può contare su un vero e proprio portfolio di marchi, costituisce un unicum a livello europeo, soprattutto in relazione alle dimensioni che ha assunto nel tempo. Nel nostro paese (che assorbe la quasi totalità dei volumi) l’azienda rappresenta il costruttore con il maggior numero di vetture cinesi targate, pari a 24.235 unità complessive (di cui 250 elettriche), per uno share che nel settembre 2023 ha superato per la prima volta il 2%, ponendo la casa automobilistica non distante da costruttori storici. [1]  Per Europa si intendono: i Paesi dell’Unione Europea e quelli che rientrano nell’EFTA, compreso il Regno Unito. [2] Elaborazioni Osservatorio su dati Acea, Unrae e Jato Dynamics

08 Novembre 2022

Nasce l’Osservatorio Auto e Mobilità di Luiss Business School

Unrae, Toyota e Honda primi partner Si è insediato il Comitato scientifico dell'Osservatorio Auto e Mobilità di Luiss Business School Unrae, Toyota e Honda sono i primi partner sostenitori dell'iniziativa, che arricchisce il panorama internazionale di un nuovo centro studi universitario di alto profilo nei settori chiave dell'auto e della mobilità.Direttori scientifici dell'Osservatorio sono il prof. Fabio Orecchini, ordinario di sistemi per l'energia e l'ambiente dell'Università Guglielmo Marconi, e il prof. Luca Pirolo, Associato di Management dell'Università Luiss Guido Carli.L'attività dell'Osservatorio Auto e Mobilità prevede un intenso programma di studi e ricerche, pubblicazioni tematiche, organizzazione di seminari, convegni ed eventi relativi all'evoluzione dell'industria dell'auto e alla mobilità sostenibile. I settori dell'auto e della mobilità convergono da tempo verso la formazione di una nuova, unica ampia area di interesse per l'industria, il legislatore e l'utilizzatore finale. La trasformazione delle tecnologie di trazione, l'arrivo di nuovi vettori energetici di alimentazione (elettricità, biocombustibili, e-fuels, idrogeno), l'automazione della guida, la diffusione della digitalizzazione e delle piattaforme di sharing sono soltanto alcuni dei grandi fattori di cambiamento che stanno interessando la macro-area che comprende Auto e Mobilità. Queste dinamiche evolutive, se da un lato richiamano all'esigenza di nuove figure professionali, dall’altro fanno emergere in modo evidente il bisogno di nuove conoscenze e approfondimenti sviluppati da centri studi indipendenti, che possano fungere da interlocutori autorevoli e credibili dei portatori di interesse pubblici e privati. In questo ambito, infatti, diventa sempre più importante poter disporre di informazioni analitiche e studi di settore capaci di intercettare e fornire chiavi di interpretazione del cambiamento epocale in corso. "La nascita di un centro studi e ricerche universitario dedicato all'auto e alla mobilità rappresenta un'occasione importante per l'intero sistema economico e industriale legato al settore”, commenta il professor Fabio Orecchini per il quale “l'Osservatorio dispone di competenze multidisciplinari preziose per supportare la trasformazione in atto nell'industria e nel ruolo della pubblica amministrazione nel settore della mobilità". È opinione condivisa che lo sviluppo della smart and sustainable mobility porti con sé sfide inedite e multi-disciplinari legate alle molte transizioni in atto. Il nuovo modo di concepire la mobilità e il ruolo dell'automobile e degli altri mezzi di mobilità personale all'interno del futuro scenario rappresentano elementi fondamentali di una conoscenza complessiva necessaria per accompagnare con successo gli attuali sistemi produttivi e commerciali verso il domani. "Il ruolo dell’Osservatorio Auto e Mobilità”, aggiunge il professor Luca Pirolo, “è quello di indagare su questi cambiamenti per comprendere l’evoluzione delle logiche di acquisto ed utilizzo di mezzi e di servizi di mobilità da parte dei consumatori e di fornire agli operatori del settore, pubblici e privati, strumenti per pianificare le proprie strategie, modelli di business e politiche industriali”. Con l’obiettivo di poter prontamente catturare i driver del cambiamento in atto, l’Osservatorio si avvale di un network di relazioni con il contesto di riferimento. L’Osservatorio parte con i primi partner sostenitori, Unrae, Toyota e Honda che entrano nel Comitato scientifico dell'Osservatorio e contribuiranno attivamente allo sviluppo delle attività ma l’Osservatorio è aperto a nuovi sostenitori, da tutte le industry che concorrono all’ecosistema della mobilità, con tre possibili livelli di adesione: Partner, Main Sponsor e Sponsor. "Il nuovo Osservatorio nasce in un momento di profonda trasformazione per il mondo dell'auto e della mobilità - afferma il Direttore Generale dell’UNRAE Andrea Cardinali – e, a differenza di tante iniziative estemporanee sulla mobilità sostenibile, ha un orizzonte pluriennale in linea con la filosofia e lo spirito dell'UNRAE, da 72 anni unica realtà associativa in Italia a rappresentare le Case costruttrici di tutti i comparti del settore. Siamo orgogliosi di contribuire a questa iniziativa di alto profilo, il cui focus è sull’automotive perché siamo convinti che anche in futuro il trasporto su gomma e l’automobile resteranno centrali nella mobilità di merci e persone. All’Osservatorio – aggiunge Cardinali - portiamo la competenza, l’expertise, l’autorevolezza e la credibilità del nostro Centro Studi e Statistiche, che dal 2013 è la fonte di dati e analisi di settore all'interno del Sistema Statistico Nazionale". PerAndrea Saccone, Responsabile Relazioni Esterne Toyota, Lexus e KINTO Italia, “Il mondo dell’auto e, più in generale quello della mobilità, stano vivendo un momento di profonda trasformazione, che implicherà l’adozione di modelli di business potenzialmente diversi da quelli attuali. In questa prospettiva, è fondamentale per tutti gli attori – aziende e istituzioni - poter contare su studi e analisi autorevoli e indipendenti, a supporto della definizione delle proprie linee d’azione strategiche. Per questo, - sottolinea Saccone - come Toyota condividiamo gli obiettivi che questo Osservatorio si propone e siamo lieti di aderire come partner, per poter dare il nostro contributo”. “Honda ha da subito sposato il progetto della costituzione di un centro studi e ricerche universitario di alto profilo – dichiara Simone Mattogno, Direttore Generale Auto di Honda Motor Europe Italia - per far fronte alla sempre più rapida trasformazione ed evoluzione dell’industria dell’auto e della mobilità più in generale. Occorre studiare con sempre maggiore competenza e conoscenza le profonde dinamiche che investono l’intero comparto per essere pronti ad affrontare le difficili sfide che attendono i nuovi modelli produttivi e commerciali. Siamo orgogliosi – conclude Mattogno - di poterci avvalere della indiscutibile esperienza e conoscenza sulla materia dei membri del Comitato Scientifico e pronti a dare il nostro contributo attivo affinché l’Osservatorio Auto e Mobilità possa diventare al più presto un punto di riferimento per tutti i player coinvolti”. 8/11/2022

25 Ottobre 2022

La crescita delle imprese inizia dalla finanza sostenibile

Presentata la ricerca “Sustainable Debt Instruments: Evolution and Outlooks with a focus on Italian Companies”, realizzata da Luiss Business School in collaborazione con Equita Rendere l'economia più sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale: le istituzioni europee hanno lavorato molto su questo fronte per cercare di centrare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 dell’ONU e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Anche in Italia la finanza sostenibile si sta sviluppando con entusiasmo, ma le sfide contemporanee richiedono maggiori impegni alle aziende, oltre a partner che possano accompagnarle verso evoluzioni sostenibili nel contesto normativo europeo. Al fine di chiarire lo scenario attuale e le evoluzioni del rapporto tra imprese e finanza sostenibile, Luiss Business School in collaborazione con Equita hanno presentato la ricerca “Sustainable Debt Instruments: Evolution and Outlooks with a focus on Italian Companies”. «Questo convegno mette insieme due parole fondamentali: sostenibilità e crescita – ha esordito Raffaele Oriani, Dean, Luiss Business School – La ricerca è andata a indagare come gli strumenti finanziari nati per raccogliere risorse utilizzate per impatti più ampi, possono essere utilizzati come strumenti di crescita. Con Equita abbiamo pensato di lavorare insieme per temi di pubblica utilità: la questione della finanza sostenibile è emersa come candidato naturale. Ciò che oggi è considerato finanza sostenibile era fino a qualche anno fa una piccola quota del mercato finanziario, mentre oggi è pari a quasi un terzo degli asset investiti. Le aziende ormai lo considerano un tema mainstream. Per questo parlarne come di strumenti di finanziamento è ancora più importante». «Questa collaborazione vuole portare a soluzioni concrete – ha spiegato Carlo Andrea Volpe, Co-responsabile Investment Banking, Equita – Esiste un contesto più ampio: costruire un ponte tra impresa e mercato di capitali. Il nostro sistema Paese presenta una serie di fragilità sul tema dell'accesso della media impresa a questo bacino, il cui ruolo sarà sempre più fondamentale in relazione alle sfide future che ci attendono. Siamo fiduciosi che tutte le consultazioni avute in questo periodo possano ridurre il divario tra il mercato italiano e le best practice internazionali. Infine, ci auguriamo che i nuovi interventi su cui si discute possano, tra l’altro, incrementare il contributo, oggi limitatissimo (inferiore al 10%) degli investitori domestici, necessario per creare una solida base per il futuro sviluppo nel nostro mercato». La ricerca La finanza Esg non è più una nicchia, ma un segmento mainstream, che potrebbe raggiungere a livello globale i 50 trilioni di dollari di Asset Under Management entro il 2025. Può arrivare a rappresentare più di un terzo degli asset totali in gestione previsti. Gli afflussi sono condizionati dai timori legati al cambiamento climatico e da altre questioni di carattere sociale. Le autorità europee sono intervenute con decisione modificando l’assetto del settore finanziario, come dimostrano le recenti evoluzioni normative: Renewed Sustainable Finance Strategy; Next Generation EU ed EU Green Deal; EU taxonomy (Regolamento UE 2020/852); Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR, Regolamento UE 2019/2088); Climate benchmarks (Regolamento UE 2019/2089). Obiettivo: garantire la trasparenza dei mercati e l'integrazione dei criteri Esg (ambientali, sociali e di governance) con gli investimenti. La ricerca ha analizzato le recenti evoluzioni normative con riferimenti ai prodotti e alle logiche di investimento. In secondo luogo, ha mappato l'evoluzione della finanza sostenibile in Europa e in Italia, con un focus sugli strumenti di debito sostenibili (Green, Sustainable, Social and Sustainability Linked Bond e Loan). Infine, ha descritto le tendenze e prospettive del mercato italiano degli investimenti sostenibili, al fine di evidenziarne le opportunità anche per piccole e medie imprese. Di supporto sono stati anche i case study di Ovs e Tea Mantova. «Le prime azioni di responsible investment risalgono al 1960 – ha fatto notare Francesco Asaro, Vice President DCM Investment Banking, Equita – mentre il primo strumento di finanza sostenibile risale al 2008: si tratta del primo green bond emesso dalla Banca Mondiale. Dal 2019, in Europa, si è sviluppato un forte interesse per questi strumenti. Oggi gli investimenti Esg rappresentano un quinto del mercato obbligazionario totale in Europa e, nonostante la guerra, il segmento è rimasto stabile, confermato nel suo volume rispetto al semestre precedente. Nel 2022, in Italia, si registrata una crescita del mercato obbligazionario pari al 90% annuo (dal 2017 al 2021). Le emissioni Esg sono arrivate al 42% emissioni delle emissioni totali, rispetto al 20% della media europea». Strategie per imprese in cerca di finanza sostenibile Durante la tavola rotonda, moderata da Janina Landau, giornalista e conduttrice Class CNBC, si è esplorato il framework normativo in cui la finanza sostenibile oggi si muove. Secondo Francesco Gianni, Socio fondatore, Gianni & Origoni – GOP, «è molto complesso e ambizioso, sia lato Ue sia italiano, con ricadute sul Pnrr. Il regolamento sulla tassonomia, la nuova direttiva relativa alle informazioni non finanziarie e la direttiva sui Green Bonds sono il punto cruciale del nuovo impianto normativo. Perché questo sistema funzioni è necessario concordare i relativi parametri di riferimento. Il procedimento è lungo e il clima macroeconomico e politico non aiutano. In aggiunta, oggi l'attenzione delle aziende è più sulla finanza che sui temi sociali: c'è una carenza di attenzione che va colmata». Da investitore mission related, con un piano strategico di forte discontinuità appena approvato, Cassa Depositi e Prestiti si pone come «emittente seriale di operazioni Esg», vicina alle aziende. Secondo Andrea Nuzzi, Head of Corporate and Financial Institutions, Cassa Depositi e Prestiti, «bisogna fare la differenza nella complementarità e nelle sinergie con i player del settore finanziario e attrarre risorse di altri investitori con operazioni di crowding in. Ma per poter investire in Pmi bisogna dotarsi di competenze tecniche, che le banche non hanno nel loro Dna. Inoltre, per incentivare le aziende a fare questi investimenti, è necessario offrire qualche vantaggio, con premialità in termini di tassi». «La cultura del mondo va verso l'ambiente – ha esordito Emanuele Orsini, Vicepresidente per il Credito, Finanza e Fisco, Confindustria - Due terzi delle nostre imprese erano già propensi alla sostenibilità. Ma il Covid ha rallentato un percorso in crescita, che dovremo riprendere. In più, se l'Europa ha risposto bene alla pandemia, non lo sta facendo con altrettanta efficienza sul tema energia. È necessario che risponda bene almeno sul tema dei dati, fondamentali per l'aspetto Esg. Dobbiamo pretendere regole chiare. La sfida della transizione sostenibile - da attuare nei tempi e nei modi giusti - è una priorità per le imprese, e rappresenta anche una straordinaria opportunità di investimento. Tuttavia, la transizione ecologica costerà alle imprese circa 100 miliardi, e per questo è necessario supportarle in questo percorso. Il mondo finanziario dovrà sostenere le imprese con strumenti di finanza alternativa e prevedendo un set integrato di misure, correggendo quelle esistenti e aggiungendone di nuove». Nel 2001 Carraro, azienda leader nella produzione di trattori speciali, aveva fatto piccole emissioni sperimentali. «La crisi violenta del 2008 ci ha portato a rivedere la nostra strategia verso il canale bancario tradizionale – ha spiegato Enrico Gomiero, Vicepresidente e CFO, Carraro – Dopo le prime emissioni “sperimentali”, dal 2009 il mondo della finanza è radicalmente cambiato e l'approccio a strumenti alternativi è stato quasi forzato, ricercato e voluto.  Grazie alla raccolta derivante da strumenti alternativi abbiamo finanziato l’attività del Gruppo e gli investimenti per l'area di ricerca e sviluppo; abbiamo inoltre investito sulla nostra presenza a livello regionale e internazionale, in India e in Cina, avendo così a disposizione apporti alternativi di finanza. L'esperienza è stata fondamentale e ci ha aiutato a evolvere la nostra cultura d'impresa. Per noi il tema dell’"economia sostenibile" non è nuovo, i nostri clienti ci hanno spinti già prima del 2017 a guardare alle tematiche ESG in quanto sono impegnati sulle stesse ormai da anni. Abbiamo iniziato ad ottenere delle certificazioni, tra cui CDP ed Ecovadis, e abbiamo l’obbiettivo di fare le prossime emissioni green anche alla luce dello sviluppo di prodotti che contribuiscano alla riduzione delle emissioni». Verso il 100% di emissioni Esg «Crediamo che l'evoluzione del mondo delle emissioni Esg è inevitabile e arriveranno a rappresentare il 100% delle emissioni – ha concluso Marco Clerici, Co-responsabile Investment Banking, Equita - Le aziende che non riusciranno a incontrare gli obiettivi Esg, non saranno compatibili con le richieste degli investitori. La tendenza, anche questo inevitabile, è che le dimensioni delle operazioni e dei possibili emittenti di strumenti green si stanno sempre più abbassando. La transizione è inevitabile e sarà questa la direzione da seguire». L'evento Strumenti di finanza sostenibile per la crescita delle imprese si è tenuto l'11 ottobre 2022 presso la sede Luiss Business School, a Villa Blanc, Roma. Sono intervenuti: Raffaele Oriani, Dean, Luiss Business School; Carlo Andrea Volpe, Co-responsabile Investment Banking, Equita; Francesco Asaro, Vicepresidente, Equita; Francesco Gianni, Socio fondatore, Gianni & Origoni – GOP; Enrico Gomiero, Vicepresidente e CFO, Carraro; Andrea Nuzzi, Head of Corporate and Financial Institutions, Cassa Depositi e Prestiti; Emanuele Orsini, Vicepresidente per il Credito, Finanza e Fisco, Confindustria; Marco Clerici, Co-responsabile Investment Banking, Equita; Janina Landau, Giornalista e conduttrice, Class CNBC. SCARICA LA RICERCA 25/10/2022

19 Maggio 2022

Chi è e cosa fa il Sustainability Manager

Dalle skill necessarie alle sfide legate a rischi e business: Matteo Caroli, Associate Dean per l’Internazionalizzazione Luiss Business School, fa il punto su questa figura professionale e sulla sua evoluzione Trasformare un'azienda in una realtà sostenibile è uno dei punti di partenza da cui si stanno sviluppando nuove figure professionali. Tra queste spicca il Sustainability Manager. A lui è demandata una funzione preventiva e strategica in linea con le più recenti novità normative ambientali, energetiche e di sicurezza finalizzata alla promozione di investimenti, politiche e iniziative sostenibili. Di questo e delle sfide che questa figura professionale deve affrontare, si parla nello studio "L’evoluzione organizzativa della sostenibilità nelle aziende italiane". A presentarlo durante l'evento Road To ESG – Viaggio verso la Sostenibilità. Sustainability Manager, è stato Matteo Caroli, Associate Dean per l’Internazionalizzazione, Direttore BU Applied Research e Osservatori, Luiss Business School. Chi è Sustainability Manager Il Sustainability Manager ha come obiettivo il miglioramento di alcuni processi e comportamenti aziendali, da trasformare nell'ottica di una costante e crescente attenzione all'ambiente. Assume nomi diversi a seconda dei Paesi e delle aziende che incorporano questa figura nel proprio organico. Il 53% dei professionisti assunti in grandi e medie imprese per questo ruolo, rivestono ruoli dirigenziali e molti di essi sono donne. «Il Sustainability Manager è in una posizione analoga di chi elabora il piano strategico – spiega Caroli – C'è un grande stress sulla misurazione dell'impatto del suo operato. C'è una diretta correlazione tra il livello di maturità professionale e le intensità delle interazioni, soprattutto con l'area di comunicazione, con l'obiettivo di scongiurare l'effetto green washing. Inoltre, questa figura estende la sostenibilità anche alle politiche del personale». Le missioni del Sustainability Manager Secondo i risultati della ricerca, la missione del Sustainability Manager comprende tre grandi temi. Il primo parte dal comprendere l'evoluzione delle questioni ESG e il loro impatto sulle dinamiche dei mercati dove il sistema opera, oltre che sui rischi e sulle prospettive di redditività dei suoi business. In secondo luogo, deve guidare l'evoluzione del sistema aziendale verso la piena sostenibilità, cioè una gestione che crea in modo integrato ed equilibrato valore economico sociale e ambientale. Infine, deve far evolvere la cultura aziendale in modo che i principi della gestione sostenibile e dell'economia circolare siano diffusi e concretamente condivisi con tutta l'impresa. Le competenze del Sustainability Manager Il Sustainability Manager deve conoscere il business, il sistema di offerta, delle tecnologie, del mercato e dei processi produttivi in cui opera. Deve avere la capacità di dialogare con le altre funzioni, per avere contezza delle caratteristiche e dei temi cruciali del business. Deve conoscere le traiettorie ambientali e sociali rilevanti, e le loro implicazioni per il settore connesse al sistema dei rischi. Inoltre, deve avere sensibilità strategica, capacità di relazione e comunicazione, nonché capacità progettuale. Secondo lo studio, il 40% di queste figure sono maturate nell'ambito delle relazioni istituzionali. «Il Sustainability Manager deve anche avere due condizioni trasversali nel modo di essere e lavorare. Prima di tutto deve essere credibile, sia nell'organizzazione sia presso gli stakeholder. Inoltre, deve avere la capacità di mettere insieme una visione sistemica, che connetta ambiente, società econoscenze specialistiche. Deve essere in grado di integrare i valori e gli obiettivi ESG con le performance economiche». Cosa fa il Sustainability Manager In virtù di queste competenze e delle sfide ESG che la contemporaneità sottopone alle aziende, il Sustainability Manager è chiamato a svolgere quattro funzioni: generatore di conoscenze e consapevolezza, facilitatore, project manager, auditor. «Ma la funzione più importante è quella di challenger, un soggetto titolato a cambiare le carte in tavola, in maniera intelligente, usando il pensiero laterale e portando prospettive e punti di vista diversi. È chiamato a sfidare i comportamenti e le convinzioni consolidate, agendo da outsider». Secondo la ricerca Luiss Business School, tra i risultati più importanti riscontrati nelle 59 aziende del campione, l'81% dei Sustainability Manager ha prodotto un aumento della cultura interna sulla sostenibilità. Una delle sfide a cui i Sustainability Manager sono chiamati riguarda la valorizzazione dei risultati ottenuti rispetto a stakeholder e investitori. «Le aziende più avanti nel processo di trasformazione sostenibile hanno superato le criticità perché vedono la sostenibilità – e in questo il Sustainability Manager ha svolto una funzione importante – il modo attraverso cui raggiungere una nuova leadership, anch'essa sostenibile». Le sfide del Sustainability Manager Oggi c'è chi dice che, arrivati a questo punto, le funzioni di questi professionisti sono esaurite. Ma c'è anche ci decide di investire ancora in queste persone per essere pronti a risolvere problematiche future, sempre più complesse. «La nuova sfida è rendere la sostenibilità un approccio di massa, che possa tirarsi dietro tutto il sistema delle Pmi e delle persone. Il Sustainability Manager deve sviluppare iniziative e progetti all'interno della propria impresa, ma anche all'esterno, in modo da trasformare la nostra sensibilità in chiave ESG». La ricerca è stata presentata durante l’evento “Road to ESG. Viaggio verso la Sostenibilità” che si è tenuto il 17 maggio a Villa Blanc. Sono intervenuti: Josephine Romano, Partner, Deloitte Legal, Luca Dal Fabbro, Presidente, ESG Institute, Franco Amelio, Sustainability Leader, Deloitte, Stefania Bortolini, Segretario Generale, Sustainability Makers, Matteo Caroli, Associate Dean per l’Internazionalizzazione, Direttore BU Applied Research e Osservatori, Luiss Business School, Marisa Parmigiani, Presidente Sustainability Makers, Carmelo Reale, GC Sustainability Group, Banca Generali, Giovanna Rosato, Head of Compliance, Danone, Claudia Strasserra, CRO Sustainability Manager, Bureau Veritas, Luca Testoni, Direttore, Etica News. 18/05/2022

13 Maggio 2022

Pharma e sostenibilità, Caroli: «Le filiali dei grandi gruppi guideranno l’innovazione»

Presentata la ricerca “L'approccio alla sostenibilità nel Life science” condotta da Luiss Business School con il sostegno di UCB Pharma Oggi la sostenibilità interessa tutte le aree della nostra vita quotidiana e le attività economiche. Di conseguenza, si tratta di un obbiettivo da raggiungere per l’intera società. Ogni player deve concorrere alla creazione di valore sostenibile, arrivando a produrre il massimo impatto. Tra queste, già per mission aziendale, ci sono le aziende farmaceutiche, a cui è dedicata la ricerca "L'approccio alla sostenibilità nel Life science" condotta da Luiss Business School. Le conclusioni tratte dal professor Matteo Caroli, Associate Dean for Internationalization e Direttore BU Applied Research e Osservatori, Luiss Business School, sono state presentate durante l'evento promosso dall’Ambasciata del Regno del Belgio in Italia e sostenuto da UCB Pharma, azienda biofarmaceutica con Headquarter a Bruxelles e sede italiana a Milano. Il ruolo chiave nella creazione di valore sostenibile in futuro sarà delle filiali. I risultati della ricerca Lo svolgimento dell'Agenda 2030 è nelle priorità dell'Italia. Il lavoro per il conseguimento degli obiettivi sarà determinante anche per attirare capitali stranieri, ivi inclusi quelli del settore farmaceutico, generando ritorni non solo economici, ma anche di valore sostenibile. L'obiettivo della ricerca svolta da Luiss Business School e presentata dal professor Matteo Caroli, è quello di capire come si muovono le società controllate nei gruppi internazionali, in particolare nel settore farmaceutico, nel nostro Paese. Inoltre, aspetto non secondario, i dati hanno mirato a cogliere le strategie corporate e le azioni sui territori da parte delle filiali. Secondo le evidenze raccolte, Caroli ha sottolineato che «saranno le filiali delle multinazionali pharma a guidare e sviluppare best practice sostenibili prima sul territorio, ma utili soprattutto a livello mondiale per l'intero ecosistema della salute». Tra i 15 grandi gruppi internazionali farmaceutici più significativi c'è un orientamento generale sulla sostenibilità. I grandi temi su cui si muovono sono le questioni Esg, quindi legate alla sostenibilità ambientale, ma anche al benessere delle persone, direttamente proporzionale al primo elemento. In questo contesto, resta fortissima l’attenzione sul benessere delle persone, che operano all’interno dell’azienda. Il rischio di green washing va sempre tenuto in conto. Può essere evitato attraverso la trasformazione culturale nelle persone dell'azienda: a partire dai board, dal vertice gestionale, passando poi a tutto il sistema aziendale. Ciò è facile quando le operazioni si svolgono normalmente. La questione cruciale è quando ci sono criticità da affrontare. «Bisogna contemplare la possibilità di rinunciare ad opportunità di business per non violare principi etici e insostenibili». Il ruolo delle filiali nella creazione di valore sostenibile Il ruolo delle filiali sarà cruciale. Infatti, le società controllate hanno la possibilità di diventare leader su alcune tematiche come quelle Esg per le condizioni specifiche del contesto geografico in cui operano e per il rapporto con gli stakeholder. In un Paese in cui la collaborazione tra pubblico e privato nel settore salute funziona, l'innovazione di questo ecosistema rappresenta una sfida da cogliere. Le aziende non saranno produttori di pillole e sciroppi, ma forniranno servizi integrati con il sistema pubblico e tutti gli altri attori chiave chiamati a partecipare all'ecosistema. L'orientamento al dialogo delle subsidiary le porterà guidare e sviluppare best practice utili a livello mondiale. All’incontro, moderato da Federico Luperi, Direttore innovazione e nuovi media Adnkronos, hanno partecipato: Pierre-Emmanuel De Bauw, Ambasciatore del Belgio; Daniela Bernacchi, Segretario Generale e Direttore Esecutivo del Global Compact Network Italia (GCNI); Matteo Caroli, Luiss Business School; Federico Chinni, AD di UCB Pharma Italia; Veronique Toully, Global Head of Sustainability UCB, e Michele Pochettino, Business Development Manager, H. Essers. 13/05/2022

17 Dicembre 2021

Women Empowerment, Boccardelli: «La policy dà la direzione, gli attori sociali chiudono il gender gap»

Presentati i dati della ricerca Luiss Business School-Iren: il mondo dell'energia traina il discorso su gender equality nel settore servizi RASSEGNA STAMPA Il Messaggero, Women Empowerment, Iren: studio su uguaglianza di genere nel settore dei serviziLa Repubblica, Women Empowerment, Iren: studio su uguaglianza di genere nel settore dei serviziLa Stampa, Women Empowerment, Iren: studio su uguaglianza di genere nel settore dei serviziMilano Finanza, L'energia è maggiormente attenta alla gender equalityAvvenire, Parità di genere. La svolta mancata e il ruolo delle donne Alley Oop Il Sole 24 Ore, Empowerment delle donne: il 2022 sarà l’anno della svolta? Comprendere il fenomeno della gender equality attraverso lo storytelling del settore servizi è lo scopo di Women Empowerment @Iren - Valorizzare il ruolo delle donne nelle aziende del settore energetico, infrastrutture e trasporti, la ricerca condotta da Luiss Business School in collaborazione con Iren. Nell'aprire i lavori Paolo Boccardelli, Direttore, Luiss Business School ha sottolineato come il tema del gender gap sia al centro di numerose agende, compresa quella del governo Draghi, ma che senza l'azione diretta di tutti gli attori sociali c'è il rischio che le disuguaglianze si amplifichino. Evitare i rischi di un pavimento appiccicoso «Non è più un problema di soffitto di cristallo, ma di pavimento appiccicoso – ha spiegato Boccardelli – Oggi, la difficoltà è far salire le donne perché non vengono offerte loro significative opportunità di crescita professionale. La nostra popolazione studentesca è costituita al 60% da donne, ma poi le troviamo in numero molto inferiore in posizioni di responsabilità. Per noi è una priorità promuovere il successo e le carriere dei nostri alunni. Per questo abbiamo lanciato il progetto Grow, che ha come obiettivo la promozione di un maggiore equilibrio nella leadership». Secondo i dati Istat su 101 mila disoccupati, 99 mila sono donne. Il tasso di occupazione femminile italiano è di 13,5 punti sotto la media europea. «In questa fase è un rischio enorme – ha aggiunto Boccardelli – che il gap di genere non si chiuda, ma si amplifichi. Abbiamo una responsabilità: promuovere il recupero dell'uguaglianza di genere, anche nell'accesso alle discipline Stem. Il premier Draghi l'ha posta come priorità del suo mandato. Ma se la policy dà la direzione, il recupero di genere lo fanno gli attori della società». La ricerca La ricerca applicata al tema del gender gap permette di monitorare l'evoluzione del fenomeno e permette di elaborare una serie di idee e di ipotesi che migliorano l'approccio al tema della parità di genere nei sistemi economici e sociali del nostro Paese. «Per questo, la Luiss Business School ha collaborato con Iren per portare dati affidabili su cui poter basare anche delle proposte di policy», ha spiegato Matteo Caroli, Associate Dean e Head Business Unit Ricerca Applicata e Osservatori, Luiss Business School. Nel delineare lo scenario sull’uguaglianza di genere, lo studio ha preso in esame l’offerta di contenuti online in 5 Paesi d’interesse (Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna) e 4 settori (Energy, Waste, Water, Telecom), nel periodo 2017-2021. Dai dati emerge come il settore energy è predominante in termini di quantità di contenuti gender presenti in rete: su un totale di 1.845 fonti web dalle quali sono emersi contenuti gender, il 43.7% deriva dal mondo energy, seguito da telco (23.8%), water (14.3%) e waste (13.6%). L’indagine di tipo semantico dei contenuti ha permesso di circoscrivere gli argomenti più rilevanti, e vede in testa il tema dell’uguaglianza (22.3%) inteso come parità di genere, seguito dalla disuguaglianza, che affronta la stessa prospettiva dall’accezione contraria del temine (11.2%). Analoghe conclusioni si riscontrano sia che si guardi ai risultati aggregati, sia alla distribuzione macroscopica degli argomenti tra i settori. Un focus sulla mappatura delle fonti in italiano mette in luce che i contenuti tematici relativi al gender sul web si attestano sul 20% del totale, del quale il 16% è equamente diviso tra temi di disuguaglianza (8.4%) e uguaglianza (8.1%), mentre il 2% è rivolto alla disparità salariale. L’analisi delle ricerche web compiute nei 5 Paesi di riferimento permette inoltre di scattare una fotografia dell’interesse nei confronti dei contenuti di genere, anche dal punto di vista cronologico, rilevando un trend in costante crescita: da 63mila ricerche mensili del 2017 alle 98mila del 2021 (+53%). I dati del “Gender Equality Index” misurati dall’EIGE-Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, evidenziano proprio un effetto di She-cession dovuto alla pandemia, per il quale rispetto al 2019 ci saranno 13 milioni di donne occupate in meno, mentre l’occupazione maschile sarà tornata ai livelli di partenza. In Italia in particolare, le donne che hanno perso il lavoro nel 2020 sono il doppio rispetto ai colleghi uomini, a causa di posizioni lavorative meno tutelate e impiego nei settori più colpiti della crisi «Con questo studio ribadiamo l’importanza di dare una interpretazione “piena” del concetto di Empowerment, di autoaffermazione delle donne a tutti i livelli, anche, e non solo, nei ruoli decisionali - ha sottolineato Maria Isabella Leone, Professoressa Associata di Management dell’innovazione, Luiss Business School - Allarghiamo inoltre il suo raggio di azione: non solo quindi le donne, ma tutti al centro delle politiche di valorizzazione e crescita di ogni organizzazione. In tale accezione, si ribadisce che ognuno di noi ha la propria voce e che è importante impegnarsi affinché quelle di tutti vengano ascoltate». Una Certificazione per la Parità di Genere Nell'analizzare i dati della ricerca, i relatori coinvolti hanno sottolineato diverse criticità nello sviluppo di una strategia che vada a intervenire concretamente sul tema del gender gap. Tra gli strumenti a disposizione, la ministra Elena Bonelli ha presentato la Certificazione per la Parità di Genere. «Il tema della parità di genere e dell'empowerment femminile in ambito professionale è uno degli assi strategici su cui l'Italia ha scelto di investire e di impostare il Pnrr – ha dichiarato Elena Bonetti, Ministro per le pari opportunità e la famiglia – Parlare di empowerment femminile significa mettere in campo energie che riconoscano i talenti delle donne, ma che sanno anche quanto siano necessari per l'intera comunità. Le competenze restano un tema fondamentale: abbiamo bisogno di aumentare e qualificare quelle femminili in ambito Stem. Abbiamo bisogno di introdurre una chiara prospettiva di genere e una leadership che attui subito questa transizione. Ci sono strumenti innovativi, che metteremo in campo, per raggiungere questi scopi. Tra questi c'è la Certificazione per la Parità di Genere, che abbiamo voluto inserire come progetto pilota nel Pnrr, una certificazione che permetterà alle imprese di avere uno strumento anche di supporto in una progettazione indirizzata per le politiche di piena promozione dei talenti femminili, che ne incentivino le carriere, che favoriscano strumenti di welfare a favore di una piena armonizzazione tra la vita familiare e quella lavorativa, strumenti che valorizzino le competenze e la possibilità di assunzione di responsabilità nell'approccio alla governance da parte delle donne. A questa certificazione seguiranno dei benefici perché alla scelta di investire nelle pari opportunità e nell'empowerment delle donne di fatto stiamo investendo risorse che attiveranno le migliori energie di cui il nostro Paese può disporre. Verrà anche costituto un Osservatorio per le Pari Opportunità e l'Empowerment delle Donne, che viene istituito a monitoraggio di questo percorso.». Creare un mondo del lavoro più femminile La parità di genere e l'empowerment, in Italia, si scontrano con un retroterra di arretratezza, complicato dagli effetti della pandemia. Infatti, l'Italia ha da sempre un problema di riconoscimento delle capacità femminili, creando una carenza di crescita ma anche di produttività. Perché, di fatto, si tiene fuori dal mercato del lavoro il 50% del capitale umano italiano. «La parità di genere non è mai stato un obiettivo strategico reale – ha spiegato Linda Laura Sabbadini, Chair W20, Direttrice centrale Istat – altrimenti avremmo investito, ad esempio, sulle infrastrutture sociali, strumento fondamentale per liberare le donne da un carico di cura familiare superiore rispetto a quello degli altri Paesi. Bisogna agire: il Pnrr può essere un'occasione per questo rilancio. C'è una sensibilità crescente sul tema: il problema è la messa a terra dei temi». «Ci sono due criticità: la necessità delle organizzazioni di adottare dei modelli femminili di lavoro e il dovere di toccare l'elefante nella stanza, cioè il potere– ha sottolineato Giorgia Ortu La Barbera , Consulente Senior per la Diversity & Inclusion , Fondazione Libellula, Consigliera di Fiducia in Rai, Sapienza e Greenpeace Italia – Uomini e donne hanno esperienze di vite differenti che si riflettono nella vita lavorativa. Ci sono molte aziende organizzate per essere compatibili con lo stile di vita degli uomini su diversi fronti: overtime, orario di lavoro, percorso di carriera, sistemi di valutazione performance. Quando le aziende decidono di sviluppare programmi di gender inclusion, devono rivedere i propri modelli per renderli compatibili con la vita professionale e personale delle donne. È necessario cambiare i propri modelli interni per permettere alle donne di crescere. Quando si parla di donne, la diversità viene cancellata e si chiede di trasformarsi, di superare i limiti della propria condizione sociale di genere. Sono rarissime le aziende che decidono di cambiare quando sviluppano dei programmi di gender equities. Infine, quando si tratta di lavorare sull'empowerment delle donne non si può parlare di equità senza parlare delle donne nella stanza dei bottoni. Basti pensare che le donne rappresentano il 52% della popolazione italiana, ma nelle organizzazioni sono una minoranza, che diventa tanto più esigua quanto più si scalano le gerarchie». La strategia di Iren In questo quadro sfidante, coscienti delle criticità del quadro economico e sociale in cui pulsa il problema del gender gap, Iren ha rivisto la sua strategia aziendale in favore dell'inclusione e del recupero dell'uguaglianza in azienda. «L’ambizioso piano industriale di Iren al 2030 – ha dichiarato l’Amministratore Delegato e Direttore Generale di Iren Gianni Vittorio Armani – è contraddistinto non solo da importanti target di natura industriale e finanziaria ma anche sostenuto da un forte empowerment delle persone che lavorano in azienda. Crediamo che la differenza di genere sia un assoluto valore su cui fondare presente e futuro di Iren e l’obiettivo di avere, entro il 2030, il 30% dei nostri manager di sesso femminile testimonia la nostra volontà di superare ogni tipo di barriera nei processi di crescita professionale e manageriale». La ricerca è stata presentata a Villa Blanc, sede della Luiss Business School, il 15 dicembre 2021 con gli interventi di: Paolo Boccardelli, Direttore, Luiss Business School, Gianni Vittorio Armani, Amministratore Delegato e Direttore Generale Iren, Barbara Falcomer, Direttrice Generale, Valore D, Giorgia Ortu La Barbera, Consulente Senior per la Diversity & Inclusion, Fondazione Libellula, Consigliera di Fiducia in Rai, Sapienza e Greenpeace Italia Linda Laura Sabbadini, Chair W20, Direttrice centrale Istat. Hanno presentato i lavori: Matteo Caroli, Associate Dean e Head Business Unit Ricerca Applicata e Osservatori, Luiss Business School, Maria Isabella Leone, Professoressa Associata di Management dell’innovazione, Luiss Business School. 17/12/2021