Evidenze dalla ricerca del Competence Centre & Lab for People Management LUISS Business School.
Cambiare azienda rappresenta sempre un vantaggio per la carriera?
Illustrare e definire il concetto di carriera ai nostri giorni non è più cosa semplice, già a partire dalla metà degli anni Novanta abbiamo osservato una radicale trasformazione dei modelli di carriera, impressa da una crescente mobilità inter-organizzativa. Infatti, il modello tradizionale -che vede le persone ricoprire posizioni su base permanente nella stessa organizzazione- è oggi sempre più raro e le carriere interne sono spesso rimpiazzate da relazioni di lavoro di natura temporanea. La ricerca e la pratica di management sembrerebbero suggerire l’importanza di essere pronti a intraprendere carriere diverse, liberandosi dall’idea che ve ne sia soltanto una e chiusa dentro il perimetro di un’unica organizzazione. I confini tra i mestieri saltano, e anche quelli tra le organizzazioni diventano più evanescenti e flessibili. Insomma, le carriere sono ormai senza confini (boundaryless careers), e si rompe il contratto psicologico fondato sull’aspettativa di un impiego a vita in un’unica organizzazione (Arthur and Rousseau, 1996).
Le carriere contemporanee, dunque, sono sempre più frammentate. C’è da chiedersi, in questo contesto, se la crescente mobilità inter-organizzativa conduca a un maggior successo di carriera oppure no. Per rispondere a questa domanda, abbiamo svolto una ricerca su un campione di 303 alumni della LUISS BS. Attraverso la somministrazione di una survey on line, abbiamo ricostruito il loro percorso di carriera. I risultati mostrano che il 31% degli intervistati è rimasto sempre fedele alla stessa organizzazione mentre il 69% ha cambiato almeno una volta contesto di lavoro nel corso della propria vita professionale. Tra questi ultimi, il 37% ha lavorato in cinque o più organizzazioni diverse; il 18% in quattro, il 26% in tre. Solo il 19% ha avuto solo due diversi “employer” nella propria carriera.
Inoltre, i risultati mostrano che non tutti hanno tratto beneficio, in termini retributivi, dall’aver cambiato numerosi “employers”. Emerge infatti una relazione positiva tra la mobilità inter-organizzativa e il livello retributivo solo per i professional; al contrario, i manager non traggono beneficio da scelte di “carriera esterna”. Cosa può spiegare queste differenze?
Una possibile motivazione può essere rintracciata nella tendenza a considerare i manager strategicamente più importanti dei professional e più difficili da “rimpiazzare”. Il timore di perdere risorse chiave nei ruoli manageriali potrebbe spingere le organizzazioni ad applicare piani di retention aggressivi, per ridurre la tentazione dei propri manager di uscire dall’azienda alla ricerca di retribuzioni più elevate. In aggiunta, i nostri risultati sembrano suggerire che le competenze firm specific (ad esempio, la conoscenza delle persone, delle procedure organizzative, dei fattori culturali, della storia dell’impresa, delle specificità del business), difficilmente trasferibili tra organizzazioni diverse, siano più rilevanti per i manager di quanto non siano per i professionisti.
Tali evidenze sembrano confermare l’importanza della stabilità organizzativa per il successo di carriera dei top manager già emersa in alcuni studi recenti. Fra questi, una ricerca condotta da Hamori e Kakarika (2009) ha evidenziato come i CEO che hanno seguito una carriera interna abbiano raggiunto le posizioni di vertice più velocemente rispetto ai CEO che avevano privilegiato la mobilità inter-organizzativa. La nostra ricerca conferma questa tendenza anche per i middle manager, fornendo indicazioni utili anche sul piano applicativo. Il suggerimento che se ne ricava è di riconsiderare con cautela l’idea che il job hopping rappresenti la strategia migliore per bruciare le tappe del successo manageriale. Al contrario, il nostro studio suggerisce che la stabilità organizzativa non penalizza, almeno in termini di crescita retributiva, quei manager che, optando per un percorso di carriera interna, decidono di rimanere fedeli all’organizzazione.
Per quel che riguarda i professional, la mobilità inter-organizzativa consente loro di applicare abilità e competenze in diversi contesti organizzativi e settoriali, mantenendo al tempo stesso la propria specializzazione professionale. In questo caso, infatti, si tratta di figure più ancorate alle competenze professionali che non a quelle firm specific. Questo aspetto tende ad incrementare la loro employability nel mercato del lavoro, e, conseguentemente, il valore che le imprese sono pronte a riconoscere a candidati esterni per ricoprire ruoli professionali.
Questi risultati confermano la tesi di King e colleghi (2005) secondo cui la mobilità di per sé non necessariamente favorisce lo sviluppo del capitale umano e dell’employability. Come affermano gli autori, “the quality of career capital matters” (p. 986). Le carriere esterne premiano solo quando l’individuo è in grado di definire un percorso di mobilità coerente, che consenta di capitalizzare sulle esperienze precedenti e di mantenere una chiara identità occupazionale. Al contrario, quando la mobilità conduce solo all’accumulazione di conoscenze ed esperienze generiche riducendo la componente di saperi più specialistica, essa non rende i professional più “employable”.
Le evidenze della ricerca offrono interessanti spunti di riflessione per le organizzazioni. Se è vero che le carriere esterne danno un ritorno maggiore ai professional, allora le imprese dovranno sempre più preoccuparsi della loro retention, dedicando maggiore attenzione a disegnare programmi di sviluppo e rewarding “ritagliati” sulla base delle loro esigenze, così da accrescerne il commitment e la fedeltà nei confronti dell’impresa.
Il presente articolo è tratto da:
Riferimenti bibliografici:
- Arthur, M. B., & Rousseau, D. M. (1996). The boundaryless career. Oxford University Press.
- Hamori, M., & Kakarika, M. (2009). External labor market strategy and career success: CEO careers in Europe and the United States. Human Resource Management, 48(3), 355-378.
- King, Z., Burke, S., & Pemberton, J. (2005). The ‘bounded’career: An empirical study of human capital, career mobility and employment outcomes in a mediated labour market. Human Relations, 58(8), 981-1007.