Importanti le ricadute per il sistema industriale, spiega la responsabile della Sezione Sviluppo e Promozione della Fusione dell’Enea
Sviluppare la fusione nucleare per produrre energia sicura, pulita e illimitata. Paola Batistoni, responsabile della Sezione Sviluppo e Promozione della Fusione dell’Enea, racconta a SustainEconomy.24, report de Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, la road map della ricerca a livello europeo e italiano con l’obiettivo di arrivare a energia in rete intorno al 2050. Parla delle importanti ricadute per il sistema industriale e anche degli investimenti di magnati come Gates o Bezos.
Il lavoro sulla fusione nucleare quanto contribuirà a garantire energia pulita in futuro?
«Noi stiamo sviluppando l’energia da fusione proprio per questo motivo, per vedere di rendere disponibile all’umanità una fonte di energia che non produce anidride carbonica, quindi non produce gas climalteranti, è sicura ed è illimitata con risorse disponibili per centinaia di migliaia di anni, forse milioni. Una fonte di energia che, a differenza delle rinnovabili, ha una regia programmabile. Quindi, la ricerca sulla fusione è finalizzata a realizzare una fonte di energia con queste buone caratteristiche che possa integrare le rinnovabili e contribuire davvero ad una società completamente decarbonizzata».
Ci aiuta a capire cosa si sta facendo a livello di ricerca?
«Intanto occorre chiarire che alla fusione stanno lavorando tutti i Paesi avanzati. In Italia, come nel resto del mondo, le ricerche sono cominciate alla fine degli anni ‘50 ma sono cominciate da zero. Per realizzare la fusione nucleare in laboratorio, infatti, occorre portare la materia in condizioni estreme, confinando in gabbie magnetiche un gas di idrogeno a temperature 10 volte più elevate di quelle che abbiamo nel centro del sole – tipicamente 150 milioni di gradi – e questo è necessario perché la fusione avviene all’interno delle stelle dove però c’è una densità di materia molto più elevata. Pertanto, riuscire a realizzare in laboratorio le condizioni per la fusione è stato oggetto di ricerche per anni ed ha richiesto lo sviluppo di nuovi campi della fisica. Ora riusciamo a raggiungere queste condizioni nei nostri laboratori, e ottenere la fusione e controllarla per tempi relativamente lunghi. Due terzi del mondo – l’Europa, gli Stati Uniti, la Russia, l’India, il Giappone la Corea del Sud – stanno collaborando al primo reattore, sempre sperimentale, ma della taglia di un reattore vero e proprio, che si chiama Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor) che stiamo costruendo in Francia e che dovrà produrre 500 megawatt di potenza di fusione, per tempi lunghi – dalle decine di minuti fino all’ora. Per dimostrare la fattibilità scientifica e tecnologica della fusione. Abbiamo, poi, Eurofusion, un programma europeo coordinato da Euratom, a cui collaborano tutti i Paesi europei, che ha elaborato una road map per arrivare ad avere energia da fusione; naturalmente una tappa fondamentale della roadmap sarà il successo di Iter, poi ci sono attività parallele per sviluppare le tecnologie necessarie per passare dal reattore sperimentale a quello dimostrativo in grado di immettere energia elettrica in rete».
A livello di tempi cosa prevedete?
«Non siamo all’anno zero, abbiamo già soluzioni che però devono essere testate e qualificate per essere utilizzate in un reattore di potenza. Per questo diciamo che ci servono ancora circa trent’anni. Sui tempi siamo molto chiari: dobbiamo finire di costruire Iter e fare la sperimentazione almeno per una decina di anni e, in parallelo, sviluppare tutte le tecnologie, per poi avere, finalmente, energia in rete. Quindi realisticamente la metà del secolo è il nostro traguardo».
Quali sono il ruolo e l’apporto dell’Italia?
«L’Italia ha una lunghissima tradizione sulla fusione. E i laboratori Enea hanno iniziato a studiare gas ionizzati già negli anni ’60. Stiamo contribuendo in maniera importante al programma europeo e siamo i secondi contributori del consorzio Eurofusion dopo la Germania. Siamo forti nella fisica dei plasmi e nella sperimentazione, in tante tecnologie dai materiali speciali che servono per i reattori, ai magneti e cavi superconduttori, stiamo veramente lavorando a 360 gradi. Grazie alla nostra presenza come presidio di ricerca e alla collaborazione che abbiamo sempre avuto con il settore industriale, l’industria italiana – per quanto riguarda il reattore Iter – ha avuto commesse per 1,8 miliardi, una grossa frazione dell’investimento europeo. È un caso di successo con ricadute sul nostro sistema produttivo e un impatto economico. Enea partecipa a Eurofusion coordinando circa venti istituti, fra cui il Cnr, Infn, molte università e alcune industrie. Nei prossimi anni, l’Italia contribuirà alla roadmap europea con un nuovo grande esperimento di fusione in via di costruzione presso l’Enea di Frascati, chiamato Divertor Tokamak Tesrìt (DTT), nell’ambito di una collaborazione tra Enea, Eni e altri istituti e università italiani, con un investimento totale di circa 600 milioni di euro».
Si è arrivati dunque, ad una fase della ricerca in cui c’è una forte collaborazione internazionale ma anche importanti opportunità?
«E’ un settore dove c’è grande collaborazione internazionale ma c’è anche competizione sugli aspetti industriali perché ci sono ricadute industriali notevoli e un interesse strategico da parte di tutti i Paesi per lo sviluppo tecnologico. C’è anche da dire che, negli ultimi anni, c’è stato un forte interesse anche dei privati. Grazie agli investimenti di personaggi noti come Bill Gates, Jeff Bezos, circa 40 società in tutto il mondo hanno raccolto alcuni miliardi di dollari da destinare alla fusione. E si affacciano a questo settore, a mia opinione, perché capiscono che siamo arrivati ad un certo punto di maturità e perché c’è un gran bisogno di fonti di energia che non siano climalteranti. Alcuni propongono configurazioni leggermente diverse e più semplici o si ripromettono di sviluppare soluzioni tecnologiche più spinte in maniera di arrivare alla fusione prima rispetto alla nostra valutazione. Pensiamo che tutto questo interesse e questo sforzo dei privati sia assolutamente positivo e che possa portare a soluzioni migliori. Siamo, invece, un po’ scettici sulle promesse di tempi molto più brevi. Il nostro approccio, tipico delle imprese pubbliche, è più conservativo, assume meno rischi, ma comunque con una strada ben tracciata».
4/3/2022