Il dg, Giordano Colarullo, racconta l’impegno, in termini di investimenti, nella filiera dell’acqua e del ciclo dei rifiuti. E sul tema energia, parla dell’ultimo decreto sul caro-bollette, “deludente” e “iniquo”.
Dalle utility un valore aggiunto annuale di 11 miliardi nella sostenibilità che arrivano a 20 miliardi considerando l’intera filiera; ma anche investimenti in crescita nell’idrico, con un gap ancora troppo elevato tra le gestioni industriali e quelle “in economia” e l’attenzione al tema del ciclo dei rifiuti per rispettare i target europei. Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, la Federazione che riunisce oltre 400 imprese nei servizi pubblici in Italia, con un valore della produzione superiore al 2% del Pil, in un’intervista a SustainEconomy.24, report di Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, sottolinea l’importanza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
E parla dell’ultimo decreto sul caro-bollette, “deludente” e “iniquo” perché, se va bene un contributo solidaristico, è sbagliata l’idea e servono misure strutturali.
Economia circolare, sostenibilità: le utility italiane dichiarano un impegno in prima linea. Cosa si è fatto e quanto ancora si deve fare?
«Abbiamo di recente pubblicato il rapporto di sostenibilità 2021 in collaborazione con la Fondazione Utilitatis che misura il valore aggiunto economico annuale distribuito dal settore sul territorio e ai vari stakeholder che ha raggiunto gli 11 miliardi e, considerando l’intera filiera e le spese per i fornitori, si porta a 20 miliardi. E’ importante sottolineare, poi, come gli investimenti di questo gruppo di imprese, seppure in un anno pandemico, non si sono fermati e hanno raggiunto i 4,5 miliardi (oltre il 14% dei ricavi), di cui oltre 600 milioni nella decarbonizzazione, quasi 300 milioni nella digitalizzazione e più di 180 milioni nell’economia circolare. E’ la natura stessa del business e la vocazione di servizio pubblico delle imprese – che hanno nel proprio dna l’attenzione all’ambiente e al sociale – a renderle un punto di riferimento per lo sviluppo sostenibile».
Analizzando i vari comparti, sul fronte del settore idrico restano ancora tante disomogeneità territoriali e servono investimenti importanti. Qual è la sua visione e cosa occorre?
«Il settore ha registrato una crescita enorme dal 2012, dall’ingresso della regolazione tariffaria che ha chiarito le regole sul riconoscimento dei costi; così da una cifra di investimenti sotto il miliardo si è passati sostanzialmente ad una proiezione che vede l’Italia intorno ai 4 miliardi per il 2022, in aggregato per l’industria, e una cifra che più o meno ci porta a 5-6 miliardi per la rete infrastrutturale italiana. Investimenti che stanno permettendo un grande recupero sul contenimento sul fenomeno, ad esempio, delle perdite idriche. Certo, c’è un gran divario tra le zone d’Italia facile da spiegare con la sostanziale differenza tra le gestioni industriali, con investimenti che si aggirano attorno ai 50-60 euro per abitante, e i soggetti non industriali, le cosiddette gestioni ‘in economia’ operate dagli enti locali, dove il livello di investimenti va sui 4-7 euro pro capite. Un ordine di grandezza così diverso che moltiplica i ritardi e spiega la distribuzione a macchia di leopardo che riscontriamo al Sud, soprattutto in Campania, Calabria e in Sicilia. E’ un’equazione quasi matematica: no gestione industriale, no servizio e no investimento e purtroppo il cluster è tutto il sud. Quindi per noi è lì che bisogna intervenire. Con il Pnrr sono stati assegnati al comparto fondi pari a 3,5 miliardi, non sono cifre enormi ma messe su un comparto con tariffa possono essere un booster. Certo, bisogna avere il coraggio di applicare lo spirito di riforma del Pnrr a tutti i livelli di governo fino alle periferie amministrative».
Un altro settore che potrebbe avere grandi potenzialità è quello dei rifiuti.
«Ci sono due dati che bisogna tenere sempre a mente. Il primo, l’Italia come Paese ha fatto molto bene sulla raccolta differenziata avendo raggiunto i target europei in alcune parti d’Italia molto prima della scadenza, anche se restano sempre delle sacche di lentezza e, ahimè, coincidono sempre con il sud e in alcuni casi anche con il centro. Secondo, ora dobbiamo volgere l’angolo visuale dalla differenziazione della raccolta al riciclaggio. Senza una decisa inversione di tendenza sarà impossibile raggiungere i target Ue che prevedono il raggiungimento del 65% di riciclaggio effettivo dei rifiuti urbani e ridurre l’utilizzo della discarica al 10%. E’ un’impresa non banale per il Paese perché oggi noi usiamo la discarica anche il doppio, cioè arriviamo intorno al 20%. Ora da qui al 2035 sono 13 anni, ma l’appuntamento è dietro l’angolo se pensiamo che quando si tratta di dover introdurre innovazioni tecnologiche e impiantistiche a volte si impiegano 4-5 anni solo per le autorizzazioni. Anche qui vediamo una grande opportunità negli interventi previsti dal Pnrr che hanno indirizzato un miliardo e mezzo per il miglioramento della raccolta differenziata e propedeutica al riciclaggio e 600 milioni su progetti nell’ambito del riciclaggio delle frazioni non riciclabili. Per rispettare gli obiettivi europei e annullare l’export di rifiuti tra le aree del Paese, abbiamo stimato che il fabbisogno impiantistico ammonta a 5,8 milioni di tonnellate. E almeno una trentina di impianti per il trattamento dell’organico e per il recupero energetico delle frazioni non riciclabili».
Da ultimo il tema dell’energia, le rinnovabili e il caro bollette. Sono stati adottati interventi sugli incentivi e una sorta di tassa sugli extra profitti per gli impianti rinnovabili. Per Utilitalia qual è la strada da seguire?
«Il provvedimento adottato appare deludente. E’ un concetto scivoloso quello degli extra-profitti perché in realtà molte imprese non ne hanno veramente beneficiato. Il disegno prospettato, pertanto, potrà essere altamente dannoso e dovrà essere valutato nella fase implementativa. Dicevo che lo riteniamo deludente perché finisce per colpire una classe di soggetti che, se ha avuto dei benefici, li ha avuti per le condizioni dei mercati internazionali, ma come è accaduto per chi produce gas. E se la misura potrà offrire, in qualche modo, un contributo solidaristico, nell’opinione pubblica va a dipingere un’idea sbagliata perché il prezzo sale per colpa di infrastrutture che non sono state costruite o per le posizioni di chi produce gas, soprattutto la Russia. Lo riteniamo un provvedimento iniquo e, peraltro, colpisce paradossalmente le tecnologie che, invece, dovrebbero essere incentivate per la transizione. Dall’altro lato non si introducono, in questo decreto, delle misure strutturali e il rischio è che dopo un trimestre il problema si ripresenti. Non è con misure tampone che si risolve il problema, è necessario mettersi a lavorare su due direttrici: certamente sul tema dell’approvvigionamento del gas e, poi, fare un ragionamento sul sistema dei mercati tutelati per valutare se il sistema attuale di approvvigionamenti, che ha comunque un Acquirente Unico, possa essere spinto a guardare alla fine della maggior tutela nel 2024».
4/2/2022