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Intesa – UBI e il caso Lombardia. Tre domande sul futuro del credito
Intesa – UBI e il caso Lombardia. Tre domande sul futuro del credito
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Commento di Raffaele Oriani, Associate Dean Luiss Business School, pubblicato su Affari & Finanza

L’offerta pubblica di scambio lanciata da Intesa Sanpaolo su UBI arriva in un momento senza dubbio complesso per il settore bancario italiano, soggetto, da un lato, a forti pressioni sulla redditività e, dall’altro, alle sfide poste dall’innovazione digitale, con il numero di sportelli sul territorio nazionale che si è ridotto del 15% negli ultimi 3 anni. La più recente analisi di KPMG sulle semestrali dei gruppi bancari italiani mette in luce nel primo semestre del 2019 una riduzione de 4,5% del margine di interesse e del 5,4% delle commissioni nette.

Si pone con forza oggi la necessità di modificare i business model, con particolare riguardo alle fonti dei ricavi, alla razionalizzazione dei costi e all’impatto delle tecnologie digitali. Un recente report di S&P mostra che ancora oggi il margine di interesse rappresenta circa il 50% dei ricavi delle banche italiane e che la penetrazione dell’online banking in Italia, attestandosi al di sotto del 50%, è più bassa rispetto a quella della maggior parte degli altri Paesi europei.

In un tale contesto, l’annunciata operazione è particolarmente significativa perché coinvolge due tra le prime cinque banche in termini di presenza territoriale. A livello nazionale, l’operazione porterebbe alla nascita di un gruppo bancario che avrebbe circa il 20% degli sportelli, al netto di quelli che è previsto vengano ceduti a BPER e senza considerare ulteriori possibili razionalizzazioni della rete.

La situazione, tuttavia, a prescindere dalle considerazioni che gli azionisti delle due banche vorranno fare, si presta a diverse valutazioni nel momento in cui, guardando ai dati di Banca d’Italia, si analizzano le quote di mercato degli sportelli a livello regionale, dove si registra una significativa eterogeneità. In alcune regioni, come Trentino, Veneto, Sardegna e Sicilia, la presenza di UBI è molto limitata e non vi sarebbero, dunque, conseguenze rilevanti in termini di competizione. In altre regioni, come ad esempio Lazio e Toscana, gli sportelli di UBI rappresentano una quota compresa tra il 5 e il 6% del totale, divenendo una ragionevole opzione di espansione per Intesa. Ci sono, tuttavia, alcune Regioni, come Lombardia, Calabria e Puglia, dove UBI e Intesa avrebbero complessivamente più del 25 % degli sportelli, mentre nelle Marche si arriverebbe fino al 40%. Non a caso, l’Offerta di Intesa prevede, per ora a titolo indicativo, una più significativa cessione di sportelli in alcune di queste regioni a BPER, che in Sardegna, caso simile, ha il 60% del mercato. Inoltre, è proprio in tali regioni, e in particolare in Lombardia dove Intesa ed UBI hanno una presenza molto simile (rispettivamente il 13,8% e il 12,8% degli sportelli), che sarebbe più probabile assistere, nella eventuale fase di integrazione, a una maggiore riduzione del numero delle filiali. A valle dell’eventuale esito positivo dell’operazione complessiva, sarà quindi necessario rivalutare la situazione concorrenziale.

Come potrebbe cambiare dunque la competizione nel sistema bancario italiano? Ci sono alcuni aspetti rilevanti che andrebbero considerati per rispondere a questa domanda.

In primo luogo, vi è ancora spazio in Italia per ulteriori operazioni di concentrazione. I dati forniti dalla BCE ci dicono che gli asset delle prime banche italiane rappresentavano nel 2018 il 45,6% del totale. Questo dato è in linea con quello francese (47,8%), ma è significativamente inferiore a quello della Spagna, dove le cinque banche più grandi detengono il 68,5% delle attività. Tuttavia, l’analisi della concorrenza va effettuata anche a livello regionale. In alcune regioni esiste ancora una quota di mercato contestabile – si pensi alla Puglia o alla Liguria, dove le situazioni della Banca Popolare di Bari e di Carige potrebbero favorire eventuali aggregazioni – mentre in altre il mercato è già sufficientemente concentrato. Ulteriori fusioni in queste aree non potrebbero che portare a un’accelerazione del taglio degli sportelli. Occorre, dunque, valutare con attenzione se, al fine di garantire crescita dimensionale e miglioramento della redditività, non sia preferibile privilegiare operazioni di acquisizione di operatori bancari all’estero, possibilmente in mercati con tassi di crescita più interessanti.

Un secondo tema riguarda gli effetti sul sistema del credito. La citata analisi di KPMG mostra una crescita sostanzialmente nulla dei crediti verso la clientela da parte delle banche italiane. La domanda che quindi ci si dovrebbe porre è se il consolidamento di due tra i maggiori operatori bancari nel mercato italiano, con la conseguente probabile riorganizzazione territoriale che ne conseguirà, possa generare effetti sulla disponibilità di credito alle imprese, soprattutto di piccole dimensioni.

Il terzo aspetto riguarda gli obiettivi delle operazioni. Ulteriori concentrazioni avranno senso solo se in grado di incidere in modo efficace sui business model e sulle leve di creazione del valore, consentendo un rafforzamento nelle aree di business a più elevata marginalità (ad esempio, private banking e wealth management) e favorendo gli investimenti nell’innovazione digitale, con una particolare attenzione ai servizi di pagamento, che oggi offrono le maggiori opportunità di crescita, ma che sono al contempo esposti a forte concorrenza da parte di operatori non bancari.

Infine, non è detto che le operazioni nel settore debbano necessariamente essere fusioni orizzontali. Alla luce di quanto discusso sopra, opportunità interessanti potrebbero nascere dall’acquisizione di società fintech che consentano alle banche, da un lato, di offrire in modo innovativo servizi già in portafoglio e, dall’altro, di ampliare la gamma di potenziali prodotti per i propri clienti. Un recente report di Hampleton & Partners evidenzia che nel corso del 2019 a livello globale sono state effettuate 439 acquisizioni di società fintech, per un controvalore di 130 miliardi di dollari, ma che nessuno dei principali acquirenti risulta essere un grande gruppo bancario. Senza dubbio, un punto su cui riflettere.

09/03/2020 

Data pubblicazione
9 Marzo 2020
Categorie
Inside News & Eventi
Tematiche
Banking