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Romito: «La cucina del futuro deve essere consapevole e accessibile. Aprirò un Campus per formare gli chef»
Romito: «La cucina del futuro deve essere consapevole e accessibile. Aprirò un Campus per formare gli chef»
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Per lo chef 3 stelle Michelin la sostenibilità deve guidare le scelte quotidiane e mangiare bene deve diventare una condizione universale

La sostenibilità deve diventare una consuetudine, un’abitudine, il denominatore comune che guida le scelte quotidiane perché non ci possiamo più permettere di rimandare. Niko Romito, chef tre stelle Michelin e imprenditore, che ha fatto dell’etica e delle scelte consapevoli il suo stile, racconta a SustainEconomy.24, report di Luiss Business School e Il Sole 24 Ore Radiocor, l’impegno per la cucina del futuro, «consapevole e accessibile» perché la creatività deve rimanere personale ma deve essere utile. Parla della riduzione degli sprechi, l’attenzione alla territorialità e alla stagionalità perché il cibo sarà il driver della sostenibilità dell’economia e dell’ambiente. E, osserva, «mangiare bene non può essere una scelta ma una condizione universale». Anche per questo aprirà, entro il 2023 un Campus per formare gli chef del futuro.

Cosa significa sostenibilità per uno chef 3 stelle?

«Il concetto di sostenibilità deve diventare una consuetudine, un’abitudine, il denominatore comune che guida le scelte quotidiane della gente e non può essere che così, il mondo non può più prescindere perché non ce lo possiamo più permettere. Il tema della sostenibilità del cibo ci impone regole molto rigide perché dopo anni in cui abbiamo immaginato di poter rimandare il cambiamento ora davvero non c’è più tempo. Noi cuochi dobbiamo far mangiare bene, la nostra creatività deve rimanere personale e identitaria ma dev’essere utile, deve perseguire lo stesso obiettivo senza sacrificare la personalità del singolo. Dobbiamo ragionare su un nuovo modello di formazione per diffondere i dogmi della cucina del futuro, consapevole e accessibile; il mio impegno è in una ricerca incessante su come le tecniche e gli insegnamenti dell’alta cucina possono essere messi in circolo in format popolari, per fare arrivare la massima qualità al maggior numero di persone La formazione di alta qualità dei nuovi cuochi, dei cuochi del futuro è ciò che rende capillare questo intento perché è la consapevolezza che guida le scelte di tutti noi. Mi sono chiesto come possiamo instaurare un dialogo con l’agroindustria per poter ‘scalare’ la qualità, cioè come possiamo sfruttare la forza produttiva e distributiva che solo l’industria ha, mantenendo integra l’eccellenza qualitativa di trasformazione dell’alta ristorazione e della ristorazione di ricerca. Bisogna colmare il divario enorme che c’è nel pensiero comune, nell’attribuzione del ‘buono’ al prodotto artigianale e del ‘meno buono’ al prodotto industriale. Questo è uno stereotipo che oggi è fuori dal tempo, perché se riusciamo a ‘guidare’ il processo industriale con il sapere e la competenza di un cuoco, che poi traduce le conoscenze acquisite dalla ricerca, in un’offerta gastronomica coerente, allora la sinergia può diventare importante nel determinare quel cambiamento culturale collettivo che oggi è necessario».

Quanto sono importanti le 3 R (riciclare recuperare riutilizzare) nella sua visione?

 «Il cibo sarà sempre di più al centro della costruzione di un futuro possibile per il pianeta. Diventerà un driver decisivo dell’economia, della salute, della sostenibilità ambientale. Oggi i valori che hanno segnato il mio percorso di cuoco e di imprenditore, ispirati a una creatività sostenibile, sono sempre più al centro della riflessione sul futuro del nostro settore: la riduzione degli sprechi alimentari attraverso il ciclo e il riciclo di tutte le parti delle materie prime; la territorialità che prediligendo le filiere corte aiuta l’economia agricola di qualità e il recupero delle coltivazioni autoctone; la stagionalità, che eviti al cibo viaggiare da un capo all’altro del mondo inquinando; il recupero di alimenti unici della dieta mediterranea come i legumi; l’applicazione di metodi standardizzati di trasformazione del cibo per renderlo parte della soluzione e non dell’aggravarsi della salute collettiva».

L’alimentazione e il benessere sono al centro dell’agenda internazionale: qual è il suo approccio?

«Al centro del mondo ora c’è la salute e lo abbiamo capito davvero quando tutto quello che ognuno di noi considerava prezioso, importante, lussuoso, è diventato superfluo, inconsistente e inutile di fronte alla minaccia alla salute mondiale. Quindi il cuoco del futuro dovrà cucinare avendo bene in mente che l’esercizio creativo dev’essere subordinato a perseguire un obiettivo etico imprescindibile e cioè la salute di chi mangia. Noi cuochi dobbiamo lavorare per questo, dobbiamo studiare, pensare, provare e riprovare per trovare l’equilibrio perfetto tra gusto e salute, tra bilanciamento nutrizionale e soddisfazione del palato. Nel mondo di oggi il lusso è comprendere, conoscere e soprattutto scegliere. Ma mangiare bene non può più essere una scelta, dev’essere una condizione universale. Gusto e salute sono due elementi che possono e devono coesistere. Il nostro lavoro, il lavoro dei cuochi ma anche quello dei medici, è di educare le persone a mangiare meglio offrendo soluzioni che siano salutari e al contempo gratificanti. Bisogna formare le figure che saranno portabandiera di questo cambiamento ma anche di diffondere un’educazione alimentare nella collettività, perché per saper scegliere bisogna conoscere e comprendere».

Quali sono le principali iniziative già intraprese e quali in cantiere?

«L’area di intervento che ritengo più incisiva rispetto a questo argomento è quella della ristorazione collettiva, perché la partita evidentemente si gioca sui grandi numeri. Dobbiamo fare lo sforzo di rendere gli investimenti e lo studio applicati all’alta ristorazione, la chiave con la quale rendere accessibile a tutti un cibo di qualità che tenga insieme salute e riduca gli sprechi alimentari. Il mio è un percorso imprenditoriale e gastronomico, che va dal ristorante gourmet alla mensa dell’ospedale. Nel momento in cui il mio laboratorio di studio e ricerca che è al Reale, riesce a far arrivare al grande pubblico parte delle conoscenze sviluppate e dei risultati acquisiti, allora significa che stiamo lasciando un segno che può arrivare a tutti. Nel 2016, in collaborazione con la Sapienza, è nato il progetto Intelligenza Nutrizionale, di cui ho già parlato diffusamente, con cui di fatto, abbiamo riscritto i protocolli di trasformazione del cibo di due ospedali di Roma. Abbiamo reingegnerizzato i processi di trasformazione degli alimenti, di servizio e di lavoro legati al cibo, con l’obiettivo di aumentarne la piacevolezza e insieme il potere nutrizionale. Questo è un progetto che è molto più di uno chef stellato nella cucina di un ospedale. Se fosse solo questo non sarebbe né particolarmente nuovo né probabilmente duraturo. L’obiettivo è il ripensamento – dal punto di vista gestionale oltre che alimentare – dell’intera catena ristorativa. Lo sviluppo di questi protocolli, partendo dalla lezione dell’alta cucina, creano prodotti per il grande pubblico, consentono di standardizzare processi e procedure e di garantire una qualità costante nel tempo. Quello che ho imparato nei laboratori del Reale l’ho trasferito su tutto quello che cucino. Perché è partendo da un nuovo approccio alla trasformazione degli alimenti che si crea e si diffonde una consapevolezza nuova, collettiva sul ruolo del cibo nel preservare e migliorare la salute, nel tutelare l’ambiente e nel generare una nuova energia emotiva e fisica. Sono convinto che facendo dialogare i format gastronomici con le tecniche e conoscenze dell’alta ristorazione si può ottenere un risultato di qualità, costante e sostenibile oltre a creare un’economia territoriale che genera posti di lavoro. Per questo ho deciso di creare un Campus universitario di ricerca e alta formazione, che aprirà le porte entro il 2023, che immagini e istruisca la nuova figura del cuoco. Uno degli obiettivi fondamentali è quello di democratizzare e di rendere accessibile il cibo di qualità a fasce di persone e a modelli di ristorazione quanto più ampi possibile. Ad un certo punto nella vita c’è anche voglia di far qualcosa a prescindere dal proprio obiettivo originario, di lasciare qualcosa di utile e che porti beneficio a persone e ambienti che sono in situazioni socialmente difficili. Osservando e vivendo la direzione in cui sta andando il mondo, vivendo in prima persona il problema sociale del cibo, della malnutrizione e di tutta la filiera agroalimentare, ho capito che i cuochi del futuro devono essere formati diversamente, più consapevolmente».

Qual è il ruolo del territorio per uno chef che non ha mai abbandonato Castel di Sangro?

«Credo anche che, sempre di più, il cibo sia ambasciatore dell’ecosistema da cui proviene; e intendo con questa parola non solo il territorio agricolo ma anche il contesto culturale, le abitudini di preparazione e consumo degli alimenti che sono diverse da Paese a Paese, da famiglia a famiglia, e che contribuiscono a creare la nostra identità. Il cibo rappresenta tutto questo, e oggi ne abbiamo sempre più consapevolezza. Gli scarti nella cultura contadina italiana sono stati la scintilla per inventare, riusare, dare nuova vita, attraverso la trasformazione creativa, al cibo. Tanto dell’unicità straordinaria della gastronomia italiana si fonda sul principio morale che il cibo non si butta. Si può dare ad esso nuova dignità grazie ad un gusto palatale imprevisto e una apparenza visiva essenziale. E riportarlo così a tavola per la gioia di chi lo mangerà.  Da questo pensiero atavico che ha attraversato generazioni di donne mi sono fatto contaminare non solo nella mia creatività culinaria, ma anche come imprenditore che vive quotidianamente la responsabilità di creare valore dal suo lavoro senza arrecare danno alla società, alla comunità, al pianeta.  Chi conosce la storia mia e di Cristiana, che è la padrona di casa del Reale, sa quanto siamo legati ad un’idea di territorio, di radici, di cultura locale come elemento distintivo del nostro essere imprenditori del cibo, dell’accoglienza, della formazione. Nel mio percorso ho dovuto dire dei no risultati fondamentali per rendere unico questo crescita professionale e imprenditoriale. Forse il più importante è stato a chi mi proponeva, dopo soli pochi anni di professione, di guidare un grande ristorante abbandonando l’Abruzzo. Ecco, non abbandonare la mia terra, su tutte le altre scelte, mi ha reso il cuoco, l’imprenditore, l’uomo che oggi sono. Non abbandonare i sapori della mia terra, ma anzi dedicarmi con sforzo alla ricerca dell’essenza della loro unicità, mi ha permesso di definire il mio stile distintivo e, apparentemente, semplice. Uno stile che elaborato e perfezionato insieme ai meri ragazzi nel mio quartier generale di Casadonna a Castel di Sangro, sulle montagne abruzzesi oggi ogni giorno viene gustato e apprezzato dai palati di donne e uomini a Pechino, Dubai, Shanghai, Roma, Milano e domani Parigi, Mosca e chissà dove altro ancora. Probabilmente solo restando qui nel mio piccolo paese arroccato sulla montagna abruzzese la mia filosofia ha potuto contaminare diversi continenti e capitali mondiali». 

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10/12/2021

Data pubblicazione
10 Dicembre 2021
Categorie
SustainEconomy.24
Tematiche
sostenibilità