10 Dicembre 2021
Per lo chef 3 stelle Michelin la sostenibilità deve guidare le scelte quotidiane e mangiare bene deve diventare una condizione universale La sostenibilità deve diventare una consuetudine, un'abitudine, il denominatore comune che guida le scelte quotidiane perché non ci possiamo più permettere di rimandare. Niko Romito, chef tre stelle Michelin e imprenditore, che ha fatto dell'etica e delle scelte consapevoli il suo stile, racconta a SustainEconomy.24, report di Luiss Business School e Il Sole 24 Ore Radiocor, l'impegno per la cucina del futuro, «consapevole e accessibile» perché la creatività deve rimanere personale ma deve essere utile. Parla della riduzione degli sprechi, l'attenzione alla territorialità e alla stagionalità perché il cibo sarà il driver della sostenibilità dell'economia e dell'ambiente. E, osserva, «mangiare bene non può essere una scelta ma una condizione universale». Anche per questo aprirà, entro il 2023 un Campus per formare gli chef del futuro. Cosa significa sostenibilità per uno chef 3 stelle? «Il concetto di sostenibilità deve diventare una consuetudine, un'abitudine, il denominatore comune che guida le scelte quotidiane della gente e non può essere che così, il mondo non può più prescindere perché non ce lo possiamo più permettere. Il tema della sostenibilità del cibo ci impone regole molto rigide perché dopo anni in cui abbiamo immaginato di poter rimandare il cambiamento ora davvero non c'è più tempo. Noi cuochi dobbiamo far mangiare bene, la nostra creatività deve rimanere personale e identitaria ma dev'essere utile, deve perseguire lo stesso obiettivo senza sacrificare la personalità del singolo. Dobbiamo ragionare su un nuovo modello di formazione per diffondere i dogmi della cucina del futuro, consapevole e accessibile; il mio impegno è in una ricerca incessante su come le tecniche e gli insegnamenti dell'alta cucina possono essere messi in circolo in format popolari, per fare arrivare la massima qualità al maggior numero di persone La formazione di alta qualità dei nuovi cuochi, dei cuochi del futuro è ciò che rende capillare questo intento perché è la consapevolezza che guida le scelte di tutti noi. Mi sono chiesto come possiamo instaurare un dialogo con l'agroindustria per poter 'scalare' la qualità, cioè come possiamo sfruttare la forza produttiva e distributiva che solo l'industria ha, mantenendo integra l'eccellenza qualitativa di trasformazione dell'alta ristorazione e della ristorazione di ricerca. Bisogna colmare il divario enorme che c'è nel pensiero comune, nell'attribuzione del 'buono' al prodotto artigianale e del 'meno buono' al prodotto industriale. Questo è uno stereotipo che oggi è fuori dal tempo, perché se riusciamo a 'guidare' il processo industriale con il sapere e la competenza di un cuoco, che poi traduce le conoscenze acquisite dalla ricerca, in un'offerta gastronomica coerente, allora la sinergia può diventare importante nel determinare quel cambiamento culturale collettivo che oggi è necessario». Quanto sono importanti le 3 R (riciclare recuperare riutilizzare) nella sua visione? «Il cibo sarà sempre di più al centro della costruzione di un futuro possibile per il pianeta. Diventerà un driver decisivo dell'economia, della salute, della sostenibilità ambientale. Oggi i valori che hanno segnato il mio percorso di cuoco e di imprenditore, ispirati a una creatività sostenibile, sono sempre più al centro della riflessione sul futuro del nostro settore: la riduzione degli sprechi alimentari attraverso il ciclo e il riciclo di tutte le parti delle materie prime; la territorialità che prediligendo le filiere corte aiuta l'economia agricola di qualità e il recupero delle coltivazioni autoctone; la stagionalità, che eviti al cibo viaggiare da un capo all'altro del mondo inquinando; il recupero di alimenti unici della dieta mediterranea come i legumi; l'applicazione di metodi standardizzati di trasformazione del cibo per renderlo parte della soluzione e non dell'aggravarsi della salute collettiva». L'alimentazione e il benessere sono al centro dell'agenda internazionale: qual è il suo approccio? «Al centro del mondo ora c'è la salute e lo abbiamo capito davvero quando tutto quello che ognuno di noi considerava prezioso, importante, lussuoso, è diventato superfluo, inconsistente e inutile di fronte alla minaccia alla salute mondiale. Quindi il cuoco del futuro dovrà cucinare avendo bene in mente che l'esercizio creativo dev'essere subordinato a perseguire un obiettivo etico imprescindibile e cioè la salute di chi mangia. Noi cuochi dobbiamo lavorare per questo, dobbiamo studiare, pensare, provare e riprovare per trovare l'equilibrio perfetto tra gusto e salute, tra bilanciamento nutrizionale e soddisfazione del palato. Nel mondo di oggi il lusso è comprendere, conoscere e soprattutto scegliere. Ma mangiare bene non può più essere una scelta, dev'essere una condizione universale. Gusto e salute sono due elementi che possono e devono coesistere. Il nostro lavoro, il lavoro dei cuochi ma anche quello dei medici, è di educare le persone a mangiare meglio offrendo soluzioni che siano salutari e al contempo gratificanti. Bisogna formare le figure che saranno portabandiera di questo cambiamento ma anche di diffondere un'educazione alimentare nella collettività, perché per saper scegliere bisogna conoscere e comprendere». Quali sono le principali iniziative già intraprese e quali in cantiere? «L'area di intervento che ritengo più incisiva rispetto a questo argomento è quella della ristorazione collettiva, perché la partita evidentemente si gioca sui grandi numeri. Dobbiamo fare lo sforzo di rendere gli investimenti e lo studio applicati all'alta ristorazione, la chiave con la quale rendere accessibile a tutti un cibo di qualità che tenga insieme salute e riduca gli sprechi alimentari. Il mio è un percorso imprenditoriale e gastronomico, che va dal ristorante gourmet alla mensa dell'ospedale. Nel momento in cui il mio laboratorio di studio e ricerca che è al Reale, riesce a far arrivare al grande pubblico parte delle conoscenze sviluppate e dei risultati acquisiti, allora significa che stiamo lasciando un segno che può arrivare a tutti. Nel 2016, in collaborazione con la Sapienza, è nato il progetto Intelligenza Nutrizionale, di cui ho già parlato diffusamente, con cui di fatto, abbiamo riscritto i protocolli di trasformazione del cibo di due ospedali di Roma. Abbiamo reingegnerizzato i processi di trasformazione degli alimenti, di servizio e di lavoro legati al cibo, con l'obiettivo di aumentarne la piacevolezza e insieme il potere nutrizionale. Questo è un progetto che è molto più di uno chef stellato nella cucina di un ospedale. Se fosse solo questo non sarebbe né particolarmente nuovo né probabilmente duraturo. L'obiettivo è il ripensamento – dal punto di vista gestionale oltre che alimentare – dell'intera catena ristorativa. Lo sviluppo di questi protocolli, partendo dalla lezione dell'alta cucina, creano prodotti per il grande pubblico, consentono di standardizzare processi e procedure e di garantire una qualità costante nel tempo. Quello che ho imparato nei laboratori del Reale l'ho trasferito su tutto quello che cucino. Perché è partendo da un nuovo approccio alla trasformazione degli alimenti che si crea e si diffonde una consapevolezza nuova, collettiva sul ruolo del cibo nel preservare e migliorare la salute, nel tutelare l'ambiente e nel generare una nuova energia emotiva e fisica. Sono convinto che facendo dialogare i format gastronomici con le tecniche e conoscenze dell'alta ristorazione si può ottenere un risultato di qualità, costante e sostenibile oltre a creare un'economia territoriale che genera posti di lavoro. Per questo ho deciso di creare un Campus universitario di ricerca e alta formazione, che aprirà le porte entro il 2023, che immagini e istruisca la nuova figura del cuoco. Uno degli obiettivi fondamentali è quello di democratizzare e di rendere accessibile il cibo di qualità a fasce di persone e a modelli di ristorazione quanto più ampi possibile. Ad un certo punto nella vita c'è anche voglia di far qualcosa a prescindere dal proprio obiettivo originario, di lasciare qualcosa di utile e che porti beneficio a persone e ambienti che sono in situazioni socialmente difficili. Osservando e vivendo la direzione in cui sta andando il mondo, vivendo in prima persona il problema sociale del cibo, della malnutrizione e di tutta la filiera agroalimentare, ho capito che i cuochi del futuro devono essere formati diversamente, più consapevolmente». Qual è il ruolo del territorio per uno chef che non ha mai abbandonato Castel di Sangro? «Credo anche che, sempre di più, il cibo sia ambasciatore dell'ecosistema da cui proviene; e intendo con questa parola non solo il territorio agricolo ma anche il contesto culturale, le abitudini di preparazione e consumo degli alimenti che sono diverse da Paese a Paese, da famiglia a famiglia, e che contribuiscono a creare la nostra identità. Il cibo rappresenta tutto questo, e oggi ne abbiamo sempre più consapevolezza. Gli scarti nella cultura contadina italiana sono stati la scintilla per inventare, riusare, dare nuova vita, attraverso la trasformazione creativa, al cibo. Tanto dell'unicità straordinaria della gastronomia italiana si fonda sul principio morale che il cibo non si butta. Si può dare ad esso nuova dignità grazie ad un gusto palatale imprevisto e una apparenza visiva essenziale. E riportarlo così a tavola per la gioia di chi lo mangerà. Da questo pensiero atavico che ha attraversato generazioni di donne mi sono fatto contaminare non solo nella mia creatività culinaria, ma anche come imprenditore che vive quotidianamente la responsabilità di creare valore dal suo lavoro senza arrecare danno alla società, alla comunità, al pianeta. Chi conosce la storia mia e di Cristiana, che è la padrona di casa del Reale, sa quanto siamo legati ad un'idea di territorio, di radici, di cultura locale come elemento distintivo del nostro essere imprenditori del cibo, dell'accoglienza, della formazione. Nel mio percorso ho dovuto dire dei no risultati fondamentali per rendere unico questo crescita professionale e imprenditoriale. Forse il più importante è stato a chi mi proponeva, dopo soli pochi anni di professione, di guidare un grande ristorante abbandonando l'Abruzzo. Ecco, non abbandonare la mia terra, su tutte le altre scelte, mi ha reso il cuoco, l'imprenditore, l'uomo che oggi sono. Non abbandonare i sapori della mia terra, ma anzi dedicarmi con sforzo alla ricerca dell'essenza della loro unicità, mi ha permesso di definire il mio stile distintivo e, apparentemente, semplice. Uno stile che elaborato e perfezionato insieme ai meri ragazzi nel mio quartier generale di Casadonna a Castel di Sangro, sulle montagne abruzzesi oggi ogni giorno viene gustato e apprezzato dai palati di donne e uomini a Pechino, Dubai, Shanghai, Roma, Milano e domani Parigi, Mosca e chissà dove altro ancora. Probabilmente solo restando qui nel mio piccolo paese arroccato sulla montagna abruzzese la mia filosofia ha potuto contaminare diversi continenti e capitali mondiali». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 10/12/2021
Carlo Petrini, il fondatore del movimento, vede una sensibilità maggiore, soprattutto dei giovani per il cibo buono, pulito e giusto. E spiega che il senso vero della sostenibilità sta nell'essere qualcosa che dura nel tempo C'è una sensibilità maggiore dei cittadini, e soprattutto dei giovani alla sostenibilità e all'attenzione al cibo «buono, pulito e giusto», come il suo motto. Ne è convinto Carlo Petrini, punto di riferimento del settore agroalimentare e fondatore di Slow Food, l'associazione internazionale no profit nata più di trenta anni fa come antidoto alla ‘fast life' e oggi presente in 160 Paesi, in tutti i continenti. In un'intervista a SustainEconomy.24, report de Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, Petrini sottolinea la necessità di un cambio di paradigma perché, spiega, il senso vero della sostenibilità sta nell'essere qualcosa che dura nel tempo. Abbandonare il consumo e il profitto, quindi, per focalizzarsi sui beni comuni e l'economia circolare. E alla politica dice: serve attenzione all'economia locale e ai territori e non ad un'economia online decentralizzata di pochi che non pagano le tasse nei Paesi in cui operano. Ora si parla solo di transizione e sostenibilità. Lei è stato un precursore, nella difesa del cibo "buono, pulito e giusto" e dei territori. È davvero cambiato qualcosa in questi anni? È cresciuta una sensibilità su questo fronte, da parte di molti cittadini e sicuramente da parte dei giovani. Si comincia a capire compiutamente che parlare di cibo, e immaginare un nuovo sistema alimentare, è strettamente connesso ad un'operazione di salvaguardia dell'ambiente, dell'equità e della dignità del mondo contadino. C'è una sensibilità maggiore». Quindi vede una risposta nei cittadini-consumatori? «Sì, perché c'è un modo anche concreto per dimostrare le proprie opinioni e questo modo concreto è come si fanno gli acquisti. Vedo una sensibilità maggiore sul rafforzamento dell'economia locale, sintetizzato sotto il simbolo del kilometro zero. È un atteggiamento che ha cambiato completamente il modo di pensare di molti cittadini, attraverso i mercati contadini e le buone pratiche di un'economia che è più attenta alla biodiversità e alle risorse locali che non agli interessi delle grandi multinazionali». Oggi, nel mondo del cibo e della ristorazione, cosa vuol dire essere sostenibili? Quali sono i valori che rendono questo settore sostenibile? «Innanzitutto, c'è una grande confusione sul termine ‘sostenibilità'. Molti pensano che derivi da ‘sostenere' e quindi se si fanno delle scelte devono essere fatte per sostenere gli investimenti economici e la produzione. Invece, non è questo il significato della sostenibilità che deriva, piuttosto, da ‘sustain', il pedale del pianoforte che allunga la durata delle note; allora hanno ragione i francesi quando traducono sostenibile con ‘durable'. Perché il senso vero della sostenibilità è qualunque iniziativa che io intraprendo - nel metodo di produrre o di distribuire o di viaggiare o di realizzare allevamenti o produzioni di cibo - tale che i risultati di queste azioni possano durare di più nel tempo. È questo il significato vero ed è un cambio di paradigma. Prima si pensava che le cose prima si consumavano è meglio era, e se duravano poco anche meglio, purché il sistema produttivo e distributivo e consumistico fosse l'elemento più importante che valorizzava il Pil, oggi si comincia a capire che i risultati delle nostre azioni devono mirare a fare in modo che quel prodotto e quella iniziativa che ho intrapreso abbia una più lunga durabilità. Allora capiamo anche che c'è un diverso modo di concepire il rapporto che abbiamo con la natura. Prima il focus più importante era il consumo e il profitto oggi il baricentro si sposta sui beni comuni, sui beni relazionali e su un certo tipo di economia circolare che garantisce che non si butta via niente, che c'è meno spreco e che i prodotti durano di più». La pandemia non ha aiutato le piccole realtà del territorio. Se potesse lanciare un appello alle istituzioni e alla politica cosa direbbe? Cosa si potrebbe fare? «Questo disastro della pandemia ha anche messo in evidenza forme di resistenza che molte persone hanno applicato nelle loro scelte quotidiane e anche la natura si è ripresa uno spazio che gli avevamo tolto. Ma dal punto di vista delle comunità io ho visto prove straordinarie di solidarietà: forme di negozi di vicinato, forme di aiuto reciproco, è stato anche un fenomeno di mobilitazione generosa. Cosa raccomanderei in questa fase di passaggio per quanto riguarda le scelte politiche ed economiche? Di concentrarsi fortemente sull'economia locale perché se sposto il baricentro verso un'economia locale, la ricchezza che possiamo generare a partire dai nostri territori e metto meno in evidenza quella economia e quelle produzioni che sono di tipo monopolistico, allora farò l'interesse di più persone e non l'interesse di pochi che, molto spesso, traggono benefici dei territori ma poi non pagano le tasse nei Paesi in cui operano, e sto parlando di grandi nomi. In questo momento darei più importanza ai mercati contadini, alle realtà di territori e ai negozi dei piccoli centri piuttosto che ad un'economia online decentralizzata e frutto di poche persone». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 10/12/2021
L'intervista del Ministro delle Politiche agricole a SustainEconomy.24 Sostenibilità e tutela del made in Italy e dell'enogastronomia «che porta sulle tavole del nostro Paese e all'estero le eccellenze del patrimonio agroalimentare». Il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli in un'intervista a SustainEconomy.24, il report de Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, parla delle principali sfide del comparto. A partire dalla sostenibilità che «è la chiave di volta di ogni modello agricolo futuro». Si sofferma sulla difesa del made in Italy e quanto al tavolo sull'enogastronomia, voluto per un settore, quello della ristorazione, in difficoltà con la pandemia, e «che aveva bisogno di avviare e mantenere un dialogo aperto con le istituzioni», racconta della proposta di creare al ministero un ufficio dedicato alle politiche di settore. E ribadisce la contrarietà al Nutriscore, l'etichetta nutrizionale a semaforo: è inaccettabile perché il consumatore ha bisogno di essere informato e non condizionato. Nell'alimentare e nel cibo made in Italy si parla sempre più di sostenibilità. È una moda o vede risultati concreti? «La sostenibilità rappresenta la chiave di volta di ogni modello agricolo futuro. I regimi ecologici, i cosiddetti "ecoschemi" rappresentano un elemento innovativo e fortemente caratterizzante della nuova Pac. Forniscono un sostegno a favore dell'applicazione da parte degli attori del settore agroalimentare di regimi volontari per il clima, l'ambiente e il benessere degli animali. Se non si riuscirà a mettere in equilibrio l'esigenza della produzione e della sostenibilità economica con la sostenibilità ambientale, l'abbandono delle terre, delle zone più svantaggiate diventerà realtà. Proprio per questo dobbiamo investire nelle tecnologie. Tramite l'ammodernamento dei processi produttivi possiamo aumentare la sostenibilità, la resilienza, la transizione verde e l'efficienza energetica del settore». Ministro, lei è in prima linea nella difesa e promozione delle nostre eccellenze sulle tavole italiane ed estere. Cosa serve al settore? «I nostri prodotti di eccellenza sono frutto di tradizioni, territori e comunità agricole, e rappresentano un punto di forza sul piano dell'economia locale e per il made in Italy nel mondo. Il nostro sistema agroalimentare va accompagnato per tutelare la qualità e l'eccellenza che lo contraddistingue. Diventa a questo punto fondamentale favorire un sempre maggior coordinamento tra i diversi attori del mondo agroalimentare, sia nel pubblico che nel privato, e continuare a portare avanti campagne promozionali adeguate e azioni comunicative mirate. Solo così potremo parlare di sviluppo competitivo dei territori, corretta conoscenza delle produzioni regionali di qualità targate made in Italy, consapevolezza da parte del consumatore della qualità del prodotto che si trova a consumare. Le battaglie condotte dal Ministero in materia di etichettatura di origine e di etichettatura nutrizionale sono basate sulla ferma convinzione che la totale trasparenza sia lo strumento principale per tutelare i prodotti di qualità e tutta la filiera, rendendo un servizio al cittadino.È noto l'impegno del ministero in termini di salvaguardia della dieta mediterranea e del prodotto di qualità rispetto a contraffazioni e italian sounding. In questo senso un contributo fondamentale è svolto dall'ICQRF che tutelare e valorizza l'agroalimentare italiano attraverso il contrasto a tutti quei comportamenti fraudolenti che minano le corrette relazioni di mercato. La scorsa settimana è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo sulle pratiche sleali che entrerà in vigore dal 15 dicembre. Una legge importantissima che garantirà finalmente un maggiore equilibrio tra produttori, distributori e consumatori». La pandemia è stato un duro colpo per il settore della ristorazione. Ha convocato il tavolo tecnico dedicato alla gastronomia italiana per avvicinare le Istituzioni al comparto. Qual è la fotografia emersa e quali vogliono essere i propositi di questo strumento? «È fondamentale per il nostro Paese investire nella giusta direzione per tutelare l'enogastronomia, che porta sulle tavole del nostro Paese e all'estero le eccellenze del nostro patrimonio agroalimentare. Abbiamo pensato, io e la viceministra allo Sviluppo economico Todde, quando abbiamo deciso di convocare il primo tavolo della gastronomia, che il settore avesse bisogno di avviare e mantenere un dialogo aperto con le istituzioni, per affrontare tutte le criticità e rappresentare le proprie esigenze e progettualità. I problemi sono tanti e toccano le competenze di vari ministeri: il Mipaaf, il Mise, il Lavoro. Per quanto di mia competenza ho proposto di realizzare al Mipaaf un ufficio dedicato alle politiche di settore e di filiera, che credo possa rappresentare un importante punto di riferimento amministrativo per ricavare risposte efficaci ed efficienti da questo scambio di idee e di vedute». Il Green Deal può giocare un ruolo anche nella formazione del consumatore verso sistemi alimentari più consapevoli e sostenibili. Cosa si può fare e che tipo di risposta vede a livello dei cittadini? «Il Green Deal è strettamente legato al tema dell'informazione nutrizionale. Un cibo fatto da pochi e semplici ingredienti è dal punto di vista economico e ambientale molto più sostenibile di tutti quei cibi iper trasformati che portano a un maggior consumo di acqua, a un maggior consumo di energia, ad esigenze di trasporto molto complesse e quindi a un maggior impatto sull'ambiente. Proprio per questo, per le nostre metodologie produttive e per i nostri prodotti, è inaccettabile adottare l'etichetta nutrizionale a semaforo, il Nutriscore. Il consumatore ha bisogno di essere informato e non condizionato. Cercheremo di convincere anche altri Paesi, e ci stiamo riuscendo, perché riteniamo sbagliato per i cittadini e i consumatori europei un approccio basato su un algoritmo, senza alcuna base scientifica». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 10/12/2021
26 Novembre 2021
La fotografia nell'indagine di Kearney Italia. Eppure qualcosa sta cambiando, complici le app Il vintage ancora non conquista gli italiani e se lo fa è per motivi di convenienza e non di scelte etiche. Eppure qualcosa sta cambiando, complici le app. Emerge dall'indagine di Kearney Italia, parte della multinazionale statunitense di consulenza strategica, che confronta l'Italia con Francia, Germania e Stati Uniti secondo due dimensioni: la quota di consumatori che hanno acquistato prodotti di seconda mano negli ultimi 12 mesi e i motivi dello shopping ‘vintage'. La quota di consumatori italiani che acquista l'usato è la metà rispetto agli altri Paesi (solo il 20% degli intervistati contro una media del 38% negli altri Paesi). Il segmento più incline all'acquisto è tra i 45-55enni con il 33% (il 43% delle donne contro un 28% di uomini), mentre in altri Paesi le generazioni più giovani mostrano più interesse. In tutti i Paesi analizzati, il motivo principale per l'acquisto è "risparmiare denaro"; in Italia pesa il 31%, principalmente per le donne (34% contro il 30% dei maschi) e nella popolazione più anziana (48% per +55anni). Gli Stati Uniti sono di gran lunga il Paese più attento ai costi con il 54% degli intervistati che cercano di "risparmiare", la Francia con il 31% è il Paese con la più alta attenzione all'ambiente e alla sostenibilità, seguita da Germania (22%) e Italia (20%), mentre ultimi sono gli Stati Uniti (5%). I consumatori italiani non hanno una visione chiara dell'usato rispetto ad altri Paesi (il 22% risponde a ragioni "altre" contro il 5% di altri Paesi). I consumatori del Sud Italia mostrano più interesse per l'usato (26% vs 20% altrove) e insieme ai consumatori del Centro Italia sono a caccia di affari, mentre i consumatori del Nord Italia mostrano driver di acquisto diversi. « Il vintage è stato finora un business ‘di nicchia', soprattutto in Italia dove la maggioranza dei giovani, per esempio, continua ad amare le novità (80%) rispetto ai coetanei tedeschi (55%) e americani (52%) molto più attratti dal second hand», spiega Dario Minutella, senior manager di Kearney a SustainEconomy.24, report di Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School. «La Germania tra le scelte d'acquisto di capi seconda mano ha come priorità il sostegno al business locale, mentre la Francia è l'unica che realmente mostra una sensibilità etica. Da noi il tema della sostenibilità resta ancora fuori dalle ragioni di acquisto del vintage, se lo facciamo è per trovare il risparmio, l'affare. Eppure, il mercato segna un trend di crescita interessante, soprattutto grazie allo sviluppo di applicazioni per vendere e scambiare prodotti usati che hanno creato un nuovo segmento di mercato destinato a crescere nel tempo. Un business che vale 40 miliardi ma che è ancora lontano dall'idea del vintage come volano per sostenere scelte etiche. Prevale appunto la motivazione della convenienza, che non per forza è negativa e che può comunque spingere la moda verso una maggiore circolarità del business». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 26/11/2021
Antonella Centra, executive vice president, general counsel, Corporate Affairs & Sustainability di Gucci parla del percorso del marchio icona del lusso made in Italy «Il lusso è per sua vocazione sostenibile ma quello che fa la differenza è tradurre i buoni propositi in fatti concreti». Un marchio icona del lusso made in Italy come Gucci, che quest'anno ha festeggiato i 100 anni, "racconta" un percorso autentico e rigoroso che lo vede carbon neutral dal 2018. Antonella Centra, executive vice president, general counsel, Corporate Affairs & Sustainability di Gucci parla, in un'intervista a SustainEconomy.24, report di Il sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, della strategia basata su due pilastri: pianeta e persone. Ma anche del lavoro sui materiali con l'ultima novità, Demetra, un materiale animal-free, derivante da fonti sostenibili, rinnovabili e bio-based, utilizzando gli stessi processi impiegati per la concia e che sarà messo a disposizione di altri brand. E dell'attenzione all'intera filiera e della decisione di adottare, per primi nel settore privato in Italia, il bilancio di genere. E nella sostenibilità, aggiunge, non ci deve essere concorrenza. Gucci ha delineato da tempo un percorso green, eppure si fa fatica ad immaginare il connubio tra lusso e sostenibilità. Come si concilia il mondo fashion con la generazione di valore? «In realtà il lusso è per sua naturale vocazione sostenibile, perché crea prodotti destinati a durare e a mantenere il proprio valore nel tempo. Partendo da questo assioma, quando si segue un approccio rigoroso e autentico lungo tutta la catena di fornitura, dalla fase di progettazione creativa alla ricerca e selezione dei materiali fino ai processi produttivi, la sostenibilità diventa un eco-sistema in grado di generare valore. Quello che fa davvero la differenza per tradurre i buoni propositi in fatti concreti, è l'approccio con cui un'enunciazione di principio diventa parte di un'intera visione e strategia aziendale. Nel nostro caso, ci siamo dati un obiettivo specifico di riduzione dell'impatto ambientale ad una certa data, potendo contare su un sistema scientifico di misurazione e, mentre facciamo progressi significativi in questo percorso di riduzione, ci siamo "autotassati" per la parte di emissioni residue, investendo in iniziative che mirano alla protezione della natura, delle biodiversità e in programmi di agricoltura rigenerativa. In questo modo restituiamo, creando un circolo virtuoso, anche in termini di occupazione e di ricadute positive sul territorio e sul valore del Made in Italy. In Gucci abbiamo iniziato a comunicare esternamente e internamente solo dopo essere stati certi di avere qualcosa di autentico da raccontare. Per noi la strategia sostenibile è infatti un percorso di continuo miglioramento». Avete lanciato Gucci Equilibrium che oltre ad un modo di pensare sostenibile si traduce in azioni e risultati concreti. Ce ne parla? «Gucci Equilibrium è la naturale conseguenza del nostro percorso sostenibile basato su due pilastri: il pianeta e le persone; è il racconto dei principi in cui crediamo e delle azioni concrete che perseguiamo per generare un cambiamento positivo attraverso un approccio scientifico. Ogni anno misuriamo e monitoriamo infatti le prestazioni ambientali dei nostri uffici, negozi e magazzini di tutto il mondo attraverso un vero e proprio conto economico ambientale. Dedichiamo molta cura nella scelta delle materie prime presenti nelle nostre collezioni, dall'adesione a rigorosi e ambiziosi standard che garantiscono un approvvigionamento e metodi di lavorazione sostenibili, alla tracciabilità e ricerca di soluzioni innovative; e infatti quest'anno abbiamo lanciato Demetra – un materiale realizzato con materie prime animal-free, derivanti in larga parte da fonti sostenibili, rinnovabili e bio-based, utilizzando le stesse competenze e processi impiegati per la concia. L'attenzione per il pianeta non può prescindere però dall'attenzione verso le persone, dal rispettare e preservare l'eco-sistema dell'eccellenza manifatturiera italiana fatta di piccole e medie imprese che per Gucci rappresentano circa il 95% dei fornitori. Un modo di agire sostenibile funziona infatti solo se applicato lungo tutta la filiera ed è per questo che condividiamo attivamente con i nostri fornitori i nostri valori, le nostre buone pratiche e spesso anche il nostro know-how trasversale. Ne è un esempio il Programma Sviluppo Filiere attuato con Banca Intesa, un programma in essere dal 2015, ma che prima a causa dell'emergenza sanitaria e poi grazie alle opportunità offerte dal Pnrr, abbiamo rinnovato affinché si adattasse velocemente alle nuove esigenze dei fornitori fornendo inizialmente supporto per superare l'emergenza causata dalla pandemia da Covid-19 e avviare piani di rilancio e di crescita e ora per sostenerli lungo la transizione ecologica». L'aver raggiunto in anticipo alcuni target pone altri obiettivi? Quali saranno i prossimi progetti? «I risultati raggiunti ci dicono che stiamo proseguendo sulla giusta strada ma dobbiamo andare avanti, cercando anche di anticipare alcuni obiettivi. Le questioni emerse dalla Cop26 e dal Summit del G20 sono chiare e le soluzioni non possono più attendere piani di lungo periodo: c'è urgenza di intervenire ora. Con la nostra campagna globale per l'uguaglianza di genere ‘Chime For Change' abbiamo contribuito, in meno di dieci anni, ad oltre 442 progetti e iniziative a favore delle donne in 89 Paesi; solo per fare un esempio, supportiamo attivamente 'I was a Sari', un'impresa sociale che sostiene un gruppo di donne lavoratrici provenienti dalle comunità svantaggiate di Mumbai nel diventare artigiane di prim'ordine e raggiungere l'indipendenza economica. Ma possiamo fare ancora di più per rendere Gucci e la nostra comunità più equi ed inclusivi. Con lo stesso approccio scientifico con cui rendicontiamo i nostri risultati ambientali e in linea con gli Obiettivi dell'Agenda Onu 2030 e della Strategia Nazionale per la parità di genere, abbiamo infatti deciso di intraprendere un percorso di analisi di genere anche all'interno della nostra realtà, adottando per primi, nel settore privato in Italia, il bilancio di genere. Vogliamo infatti fotografare la nostra situazione in tema di gender equality, ma soprattutto analizzare le basi su cui costruire la nostra strategia relativamente alle politiche di genere. L'obiettivo resta sempre quello di far meglio e di più». Dai materiali agli store, Gucci punta a diventare il luxury brand italiano più sostenibile? Siete un marchio iconico, potete essere d'esempio per il mercato e i clienti? «Non la metterei in termini di primato a meno che non si intenda come stimolo al miglioramento per altri che sono più indietro nel percorso. La sostenibilità è un ambito in cui non ci deve essere concorrenza perché "l'unione fa la forza" e le sinergie consentono di fare progressi nell'ambito della innovazione, nella scalabilità delle soluzioni e nell'adozione delle migliori pratiche nel rapporto con i propri fornitori. Per questa ragione, ad esempio, abbiamo messo a disposizione di tutto il mercato l'innovazione introdotta con Demetra. Un materiale nato grazie al connubio tra il know how degli esperti della nostra produzione e quello delle concerie. Un processo, quello della concia, tradizionalmente applicato alla pelle, applicato - invece - ad un materiale bio-based. Il risultato è talmente sorprendente che non ci siamo sentiti di "tenerlo" solo per noi. La decisione del nostro presidente e ceo Marco Bizzarri di diventare ‘carbon neutral' nel 2018, lanciando quindi con il ‘Ceo Carbon Neutral Challenge' l'appello ad altre aziende di ogni settore ad unirsi, ha accelerato il raggiungimento degli obiettivi anche grazie al fatto che si è raggiunta una maggiore chiarezza e consapevolezza da parte di tutti i nostri dipendenti e un loro ingaggio a contribuire. Se questo è avvenuto a livello interno possiamo anche immaginare che il circolo virtuoso si possa instaurare all'esterno e che si realizzi sia tra aziende dello stesso settore che tra appartenenti a settori diversi. La parola chiave è quindi apertura: sia in termini di atteggiamento mentale, affinché la sostenibilità divenga prassi quotidiana nei comportamenti individuali, sia in termini di atteggiamento cooperativo, con lo scopo di identificare e scalare soluzioni vincenti». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 26/11/2021
Barbara Cimmino, Csr director di Yamamay, racconta il lavoro, dai costumi circolari all'intimo a impatto zero Dai costumi circolari all'intimo a impatto zero. Per Yamamay, leader italiano nella produzione e distribuzione di prodotti di intimo, lingerie e moda mare, presente in 44 Paesi con 603 negozi, la sostenibilità è una sfida vissuta con impegno. Barbara Cimmino, Csr director di Yamamay (Gruppo Pianoforte cui fanno capo i brand Yamamay e Carpisa, controllato dalle famiglie Cimmino e Carlino), racconta a SustainEconomy.24, report de Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, l'esperienza in un mondo ancora poco virtuoso. E lancia le sue sfide: sensibilizzare i consumatori e produrre meno ma vendere di più. Forte nel 2020 di incassi retail pari a 299,9 milioni di euro per 19,5 milioni di pezzi venduti. E soprattutto l'attenzione alle metriche, «la chiave di svolta per il settore». Il tema dell'attenzione all'ambiente trova sempre più spazio nel mondo della moda. Si conciliano i temi della sostenibilità con il fashion e il retail? «Dal post pandemia in poi l'argomento è diventato molto forte e le aziende del settore fashion sono effettivamente impegnate in un percorso di sostenibilità che, a mio avviso, deve necessariamente confrontarsi con le misurazioni degli impatti sia sull'ambiente che sulle persone. Noi abbiamo deciso volontariamente, perché non siamo una società quotata, di pubblicare il bilancio di sostenibilità e intendiamo più che conciliare, inserire la sostenibilità nel nostro piano strategico. La nostra, volontaria ed in tempi non sospetti, è stata una decisione dettata dal voler modificare gli obiettivi di crescita con un occhio molto preciso e puntuale agli impatti che il fashion ha sull'ambiente e sulle persone. Ci sono dati scientifici incontrovertibili che la moda è la quarta industria al mondo per inquinamento. Non è più tempo di conciliare ma è arrivato il momento di agire. Noi, come Yamamay, abbiamo due motivazioni molto forti per farlo perché crediamo che questo migliori l'efficienza aziendale e già abbiamo dei Kpi molto positivi: la prima leva è legata alle banche perché è chiaro che, oggi, le banche finanziano soltanto le aziende che sono impegnate sul fronte della sostenibilità in modo formale; la seconda leva, molto importante, è rappresentata dai consumatori». Vorrei soffermarmi sui consumatori per chiederle proprio che tipo di risposta riscontrate e qual è la sensibilità? «Noi siamo retailer e, quindi, a differenza di altre aziende del settore fashion, che hanno diversi canali distributivi e attingono alle informazioni del mercato a distanza di tempo, sappiamo cosa pensano i nostri clienti molto velocemente. E, oggi, riscontriamo un gap che vogliamo assolutamente colmare: il consumatore fa delle dichiarazioni di buoni intenti relativamente alla scelta di prodotti di abbigliamento, che siano etici piuttosto che innovativi o circolari, ma poi nelle decisioni di acquisto si comporta in modo diverso. Vogliamo colmare questo gap per acquisire anche un vantaggio competitivo. Se non riusciamo a colmarlo avremo sempre fasce molto consumistiche e, quindi, orientate al prezzo. Che il prodotto sia sostenibile o non sostenibile, al dunque, interessa poco e quello che conta è il prezzo: è questa l'enorme sfida del momento da affrontare». Il percorso di sostenibilità del vostro gruppo passa anche per progetti molto concreti e collezioni orientate all'economia circolare e all'eco-design. Ci parla dei progetti attuali e futuri? «Tengo a sottolineare che, per noi, i progetti sono stati un modo per capire come misurarci e ne abbiamo attivati tantissimi, già dal 2014, che ci hanno permesso di cambiare il modo di lavorare in azienda e favorire il dialogo con aziende che fanno componenti e università. È del 2014 il nostro primo progetto di eco design con la serie Sculpt che ora ha registrato l'ultima novità, Sculpt Zero, una linea di intimo modellante che compensa le emissioni di carbonio. È prodotta in Sri Lanka con tessuti italiani e, per compensare le emissioni, Yamamay ha sostenuto un progetto di sviluppo di energia rinnovabile nel Paese. Molto importante è stata l'iniziativa della linea di costumi ‘Edit' perché, in Italia, il tema dell'economia circolare nel fashion è ancora molto destrutturato: c'è la volontà di progettare indumenti che siano circolari ma poi per fine vita non si sono ancora costruiti gli hub. Con questa serie di costumi abbiamo fatto un esercizio virtuoso, che completeremo, poi, nel 2022 con il progetto di take-back. Si tratta di una serie di costumi da bagno e di accessori tutti fatti con un polimero di poliestere riciclato e riciclabile. Qui abbiamo avuto una certificazione da Ergo Team dell'80%, un punteggio che si ottiene dopo anni di messa a punto e testimonia il fatto che nei nostri uffici stile il ragionamento su come disegnare un prodotto circolare è già acquisito. E poi abbiamo un caso di questi giorni con le scorte che sono andate esaurite a due settimane dal lancio: è il caso di Principessa Super Bra, un reggiseno che mira a un altro tipo di sostenibilità che è quella di produrre meno e vendere di più. Grazie ad un lavoro di carattere scientifico sui big data con l'ottimizzazione delle taglie siamo riusciti, con tre misure, a coprire ben 25 taglie di reggiseno: è estremamente inclusivo. Questa è una strada in cui credo tantissimo e che aiuterà a sostenere una crescita felice. Non dobbiamo vendere meno ma produrre meno e vendere di più: questo è il vero tema che la nostra industria deve affrontare e del quale poco si parla perché è difficile». Quindi un futuro sempre più circolare e inclusivo nei vostri programmi? «Noi faremo un 2022 molto orientato alle misurazioni verso la supply chain, chiederemo ai nostri fornitori di misurarsi insieme a noi e probabilmente un numero minore di progetti ma tanta più attenzione al tema delle metriche perché questa è la chiave di svolta del nostro settore. Con le metriche è possibile cominciare a sviluppare dei ragionamenti che portino ad una sostenibilità maggiore. Senza, diventano discorsi dubbi. Non credo più alla sostenibilità raccontata a livello di marketing ma ad aziende seriamente impegnate e che misurano realmente i Kpi e ne rendono conto agli stakeholder. SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 26/11/2021
ll ceo, Massimo Renon, parla dell'impegno storico del gruppo per la sostenibilità e il rispetto sociale e ricorda l'impegno sulle materie prime e il target del 100% di cotone sostenibile entro il 202 La sostenibilità, l'attenzione agli sprechi e il rispetto sociale sono connaturati nella storia di Benetton che da oltre mezzo secolo è focalizzata su principi etici e ambientali. "Sono parti integranti del dna", spiega a SustainEconomy.24, il report di Il Sole 24 Ore Radiocor e Luiss Business School, il ceo Massimo Renon. Che racconta il lavoro dell'azienda di moda italiana sulle collezioni, dai capi monofibra ai materiali naturali e riciclati con l'obiettivo di arrivare al 100% di cotone sostenibile entro il 2025. E sottolinea anche l'impegno sul risparmio energetico e gli store green. Perché, osserva, "produrre in maniera sostenibile sarà il solo modo di produrre in futuro". Ci vorrà del tempo ma deve essere e sarà il modello dominante dei prossimi anni. Da sempre Benetton, accanto all'avanguardia nell'abbigliamento ha sposato un'attenzione al sociale e all'ambiente. Dai materiali alla catena di fornitura al packaging ci parla della strategia del gruppo? «Pensando a Benetton, l'espressione 'sostenibile' è da sempre connaturata alla sua storia. Storia iniziata oltre mezzo secolo fa, nel 1965, della quale 30 anni focalizzati oltre che su campagne di comunicazione con attenzione alla difesa dei diritti umani, anche su un costante controllo della supply chain, basato non solo su criteri di competitività e trasparenza, ma anche su principi etici e ambientali. Benetton è sempre stata attenta ai cambiamenti della società con uno sguardo proiettato in avanti. Sostenibilità, attenzione a sprechi, etica e rispetto sociale sono sempre stati e continueranno ad essere parti integranti del nostro Dna. Oggi la sostenibilità permea tutta l'attività dell'azienda con lo scopo di diventare cultura condivisa. Dal risparmio energetico alla raccolta differenziata, Benetton Group e i suoi dipendenti collaborano quotidianamente per rendere le proprie sedi luoghi sempre più virtuosi e rispettosi dell'ambiente. Si sta conducendo un enorme lavoro sulle materie prime, impiegando materiali naturali, riciclati, rigenerati o certificati da autorità globali nel campo della sostenibilità. Si realizzano prodotti in cui l'80% delle fibre è di origine naturale, capi monofibra. Vengono impiegati cotone e ovatta riciclati, cotone BCI e cotone biologico e si punta ad avere entro il 2025 il 100% del cotone sostenibile». Avete anche lanciato degli store green. Quali sono i prossimi passi e i progetti? «La nostra è una strategia di sostenibilità a 360 gradi, declinata alle collezioni, alla supply chain e al punto vendita. A marzo 2021 è stato presentato a Firenze un nuovo Store Concept a basso impatto ambientale, caratterizzato da impiego di materiali riciclati e sostenibili, tecnologia all'avanguardia per la gestione dell'energia e capi con elevate performance di sostenibilità. Il negozio di Firenze rappresenta il punto di riferimento per il retail del futuro. E' un concept unico a livello mondiale studiato per dare l'avvio ad una nuova fase della nostra azienda, un progetto in cui crediamo fortemente. Sempre quest'anno, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, Benetton Group ha presentato 'Green B', una manifestazione esplicita da parte dell'azienda nell'ambito della sostenibilità, una visione a 360° che mette a sistema l'impegno per l'ambiente e le persone. Nei prossimi anni, le attività del Gruppo vedranno un impegno incrementale per avere prodotti ancora più sostenibili, una catena di fornitura ancora più rispettosa dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori, e sedi e negozi ancora più efficienti dal punto di vista energetico e della gestione degli sprechi». Un forte impegno, quindi, in termini di circolarità e impatto ambientale? «Come dicevo, l'utilizzo di nuove fibre riciclate e rigenerate nei prodotti e la selezione di tessuti in monofibra, più facili da riciclare, è in progressivo aumento. Il nostro impegno è serio, costante e rivolto al futuro, su tutti i fronti, e lo dimostrano gli importanti riconoscimenti internazionali che abbiamo ricevuto. Quelli legati all'utilizzo dei materiali. Come per la lana eccellente: dal 2017 Benetton è parte di Iwto, International Wool Textile Organization, mentre i filati italiani 100% lana merino extrafine e Shetland vengono certificati da Woolmark, la massima autorità nel campo della lana. Riguardo al cotone, sempre dal 2017 Benetton è nel programma Bci, Better cotton initiative (cotone dal minimo impatto ambientale) ed, entro il 2025, l'obiettivo è quello di realizzare le collezioni con il 100% di cotone sostenibile. Nel 2020, per il secondo anno consecutivo, il report Fashion Trasparency Index ha attestato la credibilità delle informazioni comunicate da Benetton, mentre Greenpeace ci ha inseriti tra le quattro aziende di moda che guidano il cambiamento verso l'eliminazione di sostanze inquinanti nei processi produttivi». I clienti italiani sono ‘viziati' dal bello e dal made in Italy. Che tipo di risposta vedete di fronte ad un approccio più sostenibile? «Nella strategia di Benetton Group il consumatore finale e tutte le sue esigenze sono al centro della traiettoria. E per il consumatore contemporaneo, in particolare quello più giovane, la sostenibilità è un asset importante. Quindi esiste già una grande consapevolezza da parte del pubblico. Il cliente vuole avere informazioni sui capi che acquista, sapere da dove provengono e controllare l'etichetta. I cartellini dei nostri capi sostenibili sono dotati di un QR code che rimanda alla sezione sostenibilità del sito Benetton». Voi destinate al green una fetta di investimenti. Si concilia la visione sostenibile con la gestione e il profitto aziendale? «Produrre in maniera sostenibile sarà il solo modo di produrre in futuro; tutto il mondo economico si sta muovendo in questa direzione. Non si tratterà di una trasformazione immediata, ci vorrà del tempo ma inevitabilmente questa deve essere e sarà il modello dominante dei prossimi anni». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 26/11/2021
19 Novembre 2021
Commento di Matteo Caroli, Associate Dean for Internationalization, Luiss Business School, pubblicato su Il Sole 24 Ore,19/11/2021 La transizione verde ha ancora molta strada da fare, sperando che il pianeta abbia il tempo di aspettare. Potrebbe essere questa la sintesi, un po' amara, dei lavori della Cop26. Un esempio per tutti è, senza dubbio, l’atteso accordo per lo stop alle vendite di automobili inquinanti entro il 2040, firmato solo da sei produttori e per il quale mancano all’appello le sottoscrizioni di alcuni dei grandi leader del settore. È ormai difficile trovare qualcuno che non concordi sulla necessità di intervenire a favore dell’ambiente: iniziative e proposte innovative si moltiplicano a tutte le latitudini, con un impegno concreto e crescente da parte delle imprese, soprattutto di maggiori dimensioni. Sono, però, ancora relativamente pochi quelli realmente pronti ad assecondare cambiamenti radicali, tanto tra i governi quanto tra le aziende e le persone. È essenziale, dunque, comprendere quali siano gli ostacoli che rallentano la rivoluzione “verde” e capire come rimuoverli. L’economia circolare è un ambito cruciale dove lavorare in questo senso: una crescita economica e sociale finalmente disallineata dall’impatto ambientale negativo dipende proprio dal cambiamento, in senso “circolare”, dei processi produttivi e distributivi, insieme alla “de-materializzazione” dei prodotti. Nei paesi economicamente avanzati, affinchè la transizione verso l’economia circolare avvenga in modo concreto e rapido non basta, però, spingere sul fronte delle normative, per quanto queste siano ovviamente decisive. Anche perché, “forzare” il cambiamento “per legge” causa facilmente effetti contrastanti: proprio la maggiore pervasività delle norme a tutela ambientale e sociale nei paesi dell’Europa occidentale aumenta i costi delle produzioni collocate in tali nazioni, rendendo più competitive quelle meno virtuose ma operanti in Stati con norme più lasche. Questa è una delle ragioni fondamentali che in occidente ha innescato l’opposizione, anche radicale, al libero commercio internazionale. È, dunque, arrivato il momento in cui lo Stato affianchi ai divieti e agli obblighi, misure fortemente premianti a favore delle imprese che investono in processi produttivi e distributivi e in prodotti “circolari”. Occorre incentivare questi investimenti con precise misure di sostegno finanziario: questo è particolarmente necessario per le medie, piccole e micro-imprese che generalmente non dispongono della capacità finanziaria per sostenere innovazioni radicali, che hanno un impatto economico generalmente di medio-lungo termine. Del resto, la rapida crescita della raccolta generata dai “green bond” evidenzia come le imprese in grado di operare nei mercati finanziari possano beneficiare di simili agevolazioni. Incentivi pubblici e premio sul costo del capitale riconosciuto dai finanziatori portano ad una seconda questione cruciale per la diffusione dell’economia circolare: disporre di un sistema di misurazione esaustivo, che rappresenti uno standard riconosciuto da tutti gli attori a livello internazionale. Senza una metrica che permetta una rappresentazione affidabile e oggettiva dell’impatto di misure produttive “circolari”, si rischiano non solo limitati benefici ambientali ma anche un uso inefficace, o peggio, distorcente delle risorse. La necessità di disporre di standard di misurazione consistenti è ampiamente sentita da più parti e invero sono molti e qualificati gli attori che stanno lavorando al problema. Tuttavia, è necessario aumentare gli sforzi e, allo stesso tempo, agire per un coordinamento che eviti sovrapposizioni o “gare” tra standard diversi. A tal fine, è auspicabile almeno una regia dichiarata delle istituzioni di indirizzo o di governo a livello internazionale. Considerato che, in genere, i grandi cambiamenti avvengono positivamente quando le spinte “dall’alto verso il basso” interagiscono con quelle contrarie “dal basso verso l’alto”, il paradigma dell’economia circolare potrà affermarsi solo quando sarà compreso e voluto dalla maggior parte almeno delle persone. È, pertanto, necessario che ciascun individuo si impegni concretamente a favore della transizione circolare, sia premiando prodotti e imprese con un elevato grado di circolarità, sia appoggiando le normative in tal senso, sia attraverso i propri comportamenti. 19/11/2021
13 Novembre 2021
Acquisire le competenze per rispondere alle urgenti problematiche ambientali e dare al mondo una nuova energia. La Luiss Business School, con il supporto delle aziende Iren, Terna e Tirreno Power, main partner del master di I livello con specializzazione in Sustainability and Energy Industry, offre un’occasione di formazione full-time con tirocinio a giovani professionisti che desiderano operare nelle nuove professioni dell’industria energetica, della sostenibilità e dell’ambiente. Il master dura 12 mesi, è interamente in lingua inglese presso l’Hub di Milano della Luiss Business School con possibilità di frequenza online a seconda delle proprie esigenze. I partecipanti acquisiranno conoscenze avanzate grazie ad una faculty composta da accademici e professionisti e skill pratiche durante casi studio, lavori di gruppo, laboratori e un tirocinio finale per essere pronti ad affrontare con successo le sfide globali del settore energetico. Per gli studenti più meritevoli le aziende partner mettono a disposizione borse di studio a copertura fino al 65% della quota di iscrizione. Il placement medio delle edizioni precedenti del master è del 98%. SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 12/11/2021
12 Novembre 2021
Necessario tenere in considerazione l'impatto del climate change sul business, spiega il ceo di Deloitte Italia che racconta l'impegno della prima azienda al mondo di servizi di consulenza e revisione che punta a zero emissioni nette al 2030 Siamo di fronte a una sfida epocale destinata a caratterizzare i prossimi anni. Fabio Pompei, ceo di Deloitte Italia, in un'intervista a SustainEconomy.24, report de Il Sole 24 Ore Radiocor Plus e Luiss Business School, parla della necessità di superare valutazioni basate sulla sola crescita economica ma di misurare anche i criteri Esg e di tenere in considerazione l'impatto dei cambiamenti climatici sul business. E anche per i prodotti e gli strumenti finanziari green, gli obiettivi generati da un nuovo approccio sostenibile rappresentano la strada da seguire. Quanto a Deloitte, spiega, «vogliamo raggiungere l'obiettivo delle zero emissioni nette entro il 2030». Quanto peso ha la sostenibilità nel mondo della finanza e delle imprese? E le decisioni aziendali sui temi Esg si conciliano con i risultati? «Negli ultimi mesi si è delineato uno scenario integrato delle diverse possibilità di sviluppo, che passano dalla necessità di superare valutazioni basate sulla sola crescita economica e che mettono sul medesimo piano tematiche di sostenibilità e responsabilità d'impresa. Oltre all'impatto che le singole aziende generano sull'ambiente, è diventato sempre più chiaro che per le stesse aziende i rischi legati al cambiamento climatico sono ingenti. Come emerso dal nostro report "Italy's Turning Point- Accelerating New Growth On The Path To Net Zero", nei prossimi 50 anni il mancato contrasto ai cambiamenti climatici potrebbe causare all'Italia fino a 1,2 trilioni di euro di danni economici, oltre che 21 milioni di posti di lavoro in meno. Sempre più sollecitate dal mercato e dalle nuove normative, le imprese stanno prendendo coscienza dell'impatto del cambiamento climatico sul proprio business e si stanno allineando alle linee guida europee. Sempre più realtà imprenditoriali stanno facendo propri i valori della transazione ecologica, sia in termini di maggiore efficienza energetica, de-carbonizzazione e utilizzo di risorse alternative, sia di sviluppo di modelli di economia circolare. Una sfida epocale, destinata a segnare i prossimi anni».L'attenzione sulla responsabilità ambientale e sociale nei processi di investimento e nei modelli operativi incide sulla valutazione degli investimenti. Qual è la vostra visione e che tipo di risposta vedete? «Con il documento presentato da Deloitte e Impact Management Project al World Economic Forum all'inizio del 2021 abbiamo accelerato la creazione di uno strumento universale per misurare gli impatti dei criteri di sostenibilità Esg sul valore economico delle aziende. Un'integrazione sempre più stretta di informativa finanziaria e non finanziaria, con un'attenzione specifica ai rischi e alle opportunità legate alla sostenibilità e, in particolare, al cambiamento climatico. L'obiettivo è riuscire a quantificare e comunicare gli effetti di questi fenomeni sulla generazione o sull'erosione di valore per le imprese. Inoltre, nell'ambito del B20 assieme a Confindustria, abbiamo presentato ‘The Goal 13 Impact Platform', una piattaforma realizzata per valorizzare le best practice ambientali e renderle note al mondo imprenditoriale e favorire così processi sempre più virtuosi, sia per quanto riguarda la riduzione delle emissioni sia per quanto riguarda le strategie di adattamento al cambiamento climatico. Si tratta di uno strumento ideato per accelerare il processo di transizione ecologica delle imprese, facilitando la collaborazione tra le aziende». Si assiste a una crescita sempre più significativa di prodotti e strumenti finanziari sostenibili. È una moda o un cambiamento strutturale? «Stiamo parlando di una crescita e nei prossimi mesi ci aspettiamo importanti cambiamenti e impatti significativi. Per esempio, il cambiamento climatico è entrato a tutti gli effetti nei bilanci delle società quotate: in un nostro studio abbiamo analizzato i bilanci di 226 società quotate in Borsa Italiana e il 42% delle relazioni finanziarie analizzate includeva un'informativa climate, seppur con livelli di dettaglio molto diversificati tra loro. Dallo studio condotto traspare un buon grado di consapevolezza, soprattutto per le società appartenenti a settori caratterizzati da fattori di rischio più rilevanti, rispetto al fatto che il climate change costituisca un elemento rilevante nel contesto dei rischi aziendali e in quanto tale necessiti di essere incorporato nella strategia di gestione dei rischi e quindi nella relativa informativa di bilancio Su questo fronte il sistema finanziario può fornire un contributo rilevante attraverso settori strategici e strumenti adeguati, per creare valore non soltanto nell'ottica degli azionisti, ma anche per un benessere sociale più esteso, per contrastare l'impatto dei cambiamenti climatici e i relativi rischi per il settore finanziario. Nello specifico la finanza può favorire traiettorie di sviluppo sostenibile in tutto il pianeta e promuovere impatti positivi significativi a livello globale, come per i finanziamenti verso le attività di conservazione e gli incentivi alle pratiche virtuose, ripensando le logiche di allocazione e la strutturazione dei portafogli. Anche per prodotti e strumenti finanziari green, gli obiettivi generati da un nuovo approccio sostenibile rappresentano la strada da seguire durante la lunga ripresa che ci attende». Parlando di Deloitte, quali sono i target e le strategie di business in tema di sostenibilità? «Il nostro network sta accelerando per aggiornare le policy che ci consentiranno di diminuire l'impatto ambientale, nell'ambito della più ampia strategia World Climate con cui vogliamo raggiungere l'obiettivo delle zero emissioni nette entro il 2030. Oltre a questo, a inizio agosto abbiamo lanciato il nuovo programma di ‘learning' sul clima indirizzato a tutti i nostri 330 mila professionisti, progettato per rendere consapevoli e ispirare ad agire le nostre persone - e di conseguenza i nostri stakeholder e clienti - sull'impatto del climate change. In più Deloitte Legal ha lanciato il Manifesto dello Studio Legale Sostenibile per il mondo delle professioni legali perché la sostenibilità va declinata non solo in chiave ambientale, ma anche etica e sociale. Speriamo questi siano solo i primi esempi di un trend diffuso all'interno di aziende e istituzioni. Come sempre, cultura e conoscenza sono indispensabili per acquisire consapevolezza e solo con l'impegno di tutti potremo essere all'altezza della sfida ambientale che abbiamo davanti». SFOGLIA IL REPORT COMPLETO 12/11/2021